Venerdì 17 novembre alle ore 21 a Casa Don Gianni due ospiti d’eccezione per parlare di migrazione e di popoli migranti: il professor Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni dell’Università degli Studi di Milano e il fotogiornalista Francesco Malavolta.
La serata offrirà anche l’occasione di vedere il docufilm del regista verbanese Lorenzo Camocardi “Migrazioni – Storie di umana rinascita in un’economia in trasformazione”.
Il documentario, voluto dalla Cooperativa Sociale Risorse, raccoglie le testimonianze di soci e lavoratori provenienti dai più diversi paesi: le loro fughe, i loro viaggi, il loro arrivo in Italia e la nuova vita che sono riusciti, anche grazie alla cooperazione, a ricostruirsi. Uno sguardo lucido sul fenomeno migratorio, senza vene polemiche o propagandistiche, una disanima della situazione attraverso le voci di chi quotidianamente vive questa realtà, di chi la studia e di chi ne ha capito il valore e la potenzialità.
In attesa di ascoltarli dal vivo abbiamo posto qualche domanda ai due relatori per conoscerli meglio e per cominciare a orientarci nel tema della serata.
Malavolta: La mia decisione di fotografare “le persone in movimento” è stata abbastanza casuale: negli anni ‘90 facevo il militare al porto di Brindisi e, passeggiando con la mia vecchia Canon a pellicola, mi sono trovato di fronte a una barca di migranti che arrivava dall’Albania. Da allora ho cominciato a orientare il mio lavoro verso gli aspetti più sociali del mondo e oggi il tema delle migrazioni rappresenta il 90% dei miei scatti.
Negli ultimi 15 anni il mio interesse personale sull’argomento, che è così vasto, doloroso, drammatico e sempre in aumento è ancor più cresciuto e si è focalizzato. Ho deciso di occuparmi non solo del viaggio, ovvero delle frontiere, dei salvataggi, dei passaggi all’interno dei paesi, ma di raccontare anche i luoghi di partenza, quelli che vedono i protagonisti partire per cercare una vita migliore.
Ambrosini: Direi che è stata una combinazione tra propensioni personali e circostanze esterne. Mi sono laureato in Cattolica alla fine degli anni ’70 e ho cominciato a collaborare con il dipartimento di sociologia; per oltre 10 anni mi sono concentrato prevalentemente su lavoro, relazioni sindacali, partecipazione delle imprese, disoccupazione, lavoro precario. Alla fine degli anni ‘80 l’Italia scopre di essere diventata un paese di immigrazione e nasce una domanda di ricerca e conoscenza su questo tema. Il mio maestro, il professor Michele Colasanto, mi coinvolse in alcuni progetti dell’Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia in cui iniziavamo a interessarci al lavoro degli immigrati. Quella era anche la Milano del Cardinal Martini, ricordo che in un incontro per presentargli un rapporto sulla città, ci chiese: “Avete parlato degli immigrati in questo rapporto?”. Non lo avevamo fatto. Fu uno stimolo. Era un periodo in cui nel mondo cattolico c’era grande sensibilità. Ho lavorato parecchio con la Caritas Ambrosiana, perché accanto agli interventi pratici, c’era una volontà di capire e approfondire, c’era una domanda formativa di operatori e volontari. Questi diversi aspetti, accademici, sociali, legati agli ambienti che frequentavo e alle domande del territorio, mi hanno spinto sempre di più a lavorare su questi temi. Quando uno sviluppo di carriera mi ha portato a Genova come professore associato, abbiamo istituito il primo corso universitario in Italia di Sociologia delle migrazioni; abbiamo creato la rivista “Mondi Migranti”, la scuola estiva di sociologia delle migrazioni, il “Centro Studi MEDÌ, migrazioni nel Mediterraneo. Al mio ritorno a Milano la strada era tracciata e questo è diventato il mio principale tema di ricerca.
Ambrosini: Non è cambiato molto, già negli anni ’80 la gente, compresi i colleghi del mondo accademico, si stupivano quando raccontavo che molti immigrati trovavano lavoro in Italia. L’immigrazione era percepita come un fenomeno che ci pioveva addosso dall’esterno, e che, nel migliore dei casi, chiedeva assistenza, nel peggiore rappresentava una minaccia e un problema per la società. C’era sempre questa idea di un’emergenza, di un fenomeno non voluto e non richiesto, per molti aspetti problematico. Questa visione persiste, ha assunto volti diversi, preso di mira componenti diversi della migrazione: inizialmente quelli visti come problematici erano i nordafricani, i marocchini; poi c’è stata la fase degli albanesi, poi quella dei rumeni, ogni 10 anni all’incirca c’è un nuovo gruppo di immigrati malvisti, che diventano l’occasione per preoccuparsi degli immigrati in generale, adesso è il momento dei rifugiati africani. Forse oggi si sono inaspriti i toni, il tema è diventato più rilevante nell’agenda politica, più divisivo per il paese e forse ha assunto connotazioni razziali più marcate che all’inizio.
Malavolta: Oggi le rotte sono tante e le più numerose non sono quelle che arrivano in Italia e nemmeno in Europa. Secondo le Nazioni Unite sono state oltre 100 milioni, lo scorso anno, le persone che si sono spostate all’interno del mondo per vari motivi: guerre, conflitti, devastazione climatica, mancanza di ogni tipo di libertà e di accesso ad acqua e cibo. Sono tanti i motivi che spingono le persone a migrare, e spesso verso sud, all’interno degli stessi continenti. La percentuale delle persone che arrivano via terra e via mare in Italia, è veramente minima.
In questo momento prevale la rotta tunisina, che coinvolge le persone in fuga dalla Tunisia e provenienti da tutta l’area del centro Africa, messe al bando dal governo di Tunisi. La zona di Sfax è il punto più caldo per le partenze. In Italia si parla solo nell’estate di 100.000 arrivi.
Continuano ad essere attive le rotte che partono dalla Libia; dalla Turchia verso la Grecia (anche se i numeri sono bassi); dalla Bulgaria per la cosiddetta rotta balcanica.
Una rotta poco conosciuta, che riguarda sempre l’Europa, è quella verso le Canarie, che abbraccia la zona da Mauritania e Marocco fino al Senegal: circa 50 mila arrivi negli ultimi 3 anni, con un numero importante di vittime, dati i tempi lunghi della traversata da Dakar a Lanzarote.
Ambrosini: C’è uno scarto molto forte tra l’immigrazione raccontata e l’immigrazione effettiva, una parte del mio lavoro è proprio dedicata a cercare di chiudere questo divario. In Italia abbiamo 5 milioni e 300 mila immigrati regolari, e si stima circa 500 mila irregolari, eppure discutiamo, ogni giorno, dei 340 mila richiedenti asilo – rifugiati, di cui almeno il 40% Ucraini, che sono stati accolti nel nostro paese.
Un altro mito da sfatare è la convinzione che gli immigrati siano giovani uomini che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente, mentre la maggioranza sono donne, e quasi la metà sono europee e 2 milioni e 350 mila hanno un lavoro regolare in Italia.
Ambrosini: Rispondo con una battuta tratta da una vignetta di Altan, dove uno dei suoi personaggi mostruosi chiede all’altro: “Cosa potremmo augurare ai razzisti di casa nostra?” e l’altro mostro risponde: “Una badante vendicativa”.
Facciamo fatica a renderci conto che una parte della nostra società e dei nostri fabbisogni di forza lavoro dipendono da persone che arrivano dal resto del mondo. La casa è l’ambito fondamentale; il settore lavorativo in cui è più alta l’incidenza dell’immigrazione è quello dei servizi domestici e assistenziali, dove gli stranieri sono circa il 70% degli occupati regolari. È proprio nell’intimo delle nostre case che si sviluppa in realtà questa complementarietà tra immigrati e i nostri fabbisogni, le nostre necessità, anche le nostre relazioni e i nostri bisogni di ascolto e di compagnia. Dovremmo partire da noi stessi, dalle nostre reti parentali e dal nostro vicinato, per renderci conto che la nostra società è più intrecciata con il resto del mondo e con chi arriva dall’esterno, di quanto forse siamo disposti ad ammettere.
Malavolta: Fare cultura e fare chiarezza è necessario! Incontro spesso gli studenti di scuole medie e superiori; i ragazzi, per vari motivi, non accedono all’informazione corretta: sono distratti dalle fake news e da un “sapere” che passa solo attraverso i social media. Entrare nelle scuole e portare la giusta informazione significa dare un mezzo di conoscenza e non solo di opinione. Negli ultimi 15 anni sono tantissimi i ragazzi e le ragazze che ho incontrato. Nei primi minuti trovo un atteggiamento di chiusura e disinteresse, ma basta poco, è sufficiente raccontare la storia di quelle persone, spesso loro coetanei, la quotidianità delle migrazioni, la vita di chi sceglie di lasciare la propria terra e la propria famiglia, e, alla fine della lezione, mi ritrovo con studenti che mi chiedono contatti, che vogliono partire come volontari, che vogliono preparare tesi e ricerche sull’argomento, e molti che, anche dopo, mi seguono sui social per continuare a informarsi.
Mi sono inventato un gioco da fare in aula: mostro una foto con un barcone strapieno di persone, spesso solo uomini, e invito i ragazzi a scrivere la frase o la parola che gli evoca quell’immagine. Lo stesso faccio alla fine: dopo avere raccontato qualche viaggio e qualche storia, si passa da “ci invadono” a “dobbiamo fare qualcosa per loro/dobbiamo aiutarli”.
Ambrosini: C’è un dato positivo che emerge da gran parte dei sondaggi e ricerche sul tema, e anche persino dai risultati elettorali dei vari paesi: chi conosce gli immigrati, chi ha modo di interagire con loro, ha meno paura, meno resistenze e pregiudizi rispetto a chi non li conosce. Basti pensare al voto per Donald Trump, alla Brexit, al voto in Germania: chi mostra, votando, più ostilità nei confronti degli immigrati vive in contesti dove ce ne sono pochi. Ugualmente nei sondaggi di opinione quando si chiede “tu conosci/hai rapporti con gli immigrati?” chi risponde di sì è più probabile che abbia meno pregiudizi e meno difficoltà a interagire e ad accettare l’immigrazione. Ne discende che se si moltiplicano i luoghi, le occasioni, le opportunità di incontro, di esperienza effettiva, di relazione con l’altro, anche le difficoltà e le paure tendono a scemare.
Porto un esempio di esperienza reale: oggi nelle case popolari di Milano ci sono due popolazioni che occupano gran parte degli appartamenti: gli anziani italiani, spesso donne vedove, e le giovani famiglie immigrate. Questi due mondi, pensati come incomunicabili e ostili tra di loro, in realtà spesso si incontrano. La nonna italiana sola, che non sa come passare il tempo, i figli e i nipoti sono cresciuti e non sono lì con lei, al pomeriggio vede arrivare da scuola i bambini delle famiglie di immigrati, i cui genitori sono al lavoro, e li invita a casa sua, prepara la merenda, guardano la tv, non dico gli fa fare i compiti ma li accoglie; nascono delle relazioni, degli incontri a livello di pianerottolo. Bisogni reciproci diventano opportunità.
Malavolta: A ottobre andrò in Togo, poi tornerò in Kossovo, per completare la documentazione, intervistando i kossovari albanesi, e in Tunisia, dove ho lavorato in passato, proprio per trovare storie di persone in fuga verso l’Italia. Poi dipende dalle rotte, nel caso delle migrazioni gli scenari possono cambiare rapidamente. Voglio tornare anche nell’area balcanica; se ne sta parlando poco, ma ci sono passaggi importanti e numeri molto alti all’interno di quei paesi. L’inverno è durissimo e provoca molti morti, vorrei comprendere se sono cambiate le politiche rispetto ai blocchi, ricordiamo tutti quello che accadeva al confine tra Bosnia e Croazia, con i respingimenti.
Ambrosini: Uscirà in autunno un piccolo libro, dedicato proprio al tema dei rifugiati per cercare di fare chiarezza su questo nodo così controverso e problematico. Si intitolerà “Stato D’assedio – Perché la questione dei Rifugiati ci rende peggiori” editore Egea – casa editrice dell’Università Bocconi. Cerco per almeno una parte del mio lavoro di mettermi in dialogo con l’opinione pubblica e di cercare, se posso, di dare qualche elemento per migliorare il tenore del dibattito pubblico su questi argomenti.
Fotografie: © Francesco Malavolta
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