Magazine Alternativa A Numero 1
Anno 2024
MIGRANTI
14 Marzo 2024

Delfo aveva da poco compiuto quindici anni.

Quel mattino, la barba folta, le spalle larghe, le mani grandi e callose, il suo metro e novanta di altezza segnarono l’inizio di una storia non voluta.

In due occasioni aveva cercato, senza successo, di dimostrare la sua giovane età: solo la testimonianza di compaesani affettuosi, operai della TODT, ne aveva consentito il rilascio.

Stanare renitenti alla leva era vitale per le milizie nazi-fasciste.

Quel nove di settembre, all’alba, nessuno avrebbe garantito per lui. Fuggire verso la montagna, la soluzione: dal lago soldati della Repubblica Sociale occupavano il paese, rastrellando malcapitati via per via, casa per casa. Nello zaino di tela scozzese, chiuso da una lunga stringa di corda, poche cose raccolte di furia.

Gli spari erano vicini.

Un coltello, un lapis, l’orologio a cipolla del padre, una bottiglia di vino e … il paltò.

Un pesante e ingombrante cappotto da inverno, in un giorno di fine estate: l’amara consapevolezza di chi, scappando dalla guerra, non conosce la stagione del ritorno.

Non era solo a scavalcare il muro del grande giardino che guardava la campagna. C’era Luigi, il fratello che l’otto settembre del quarantatré sorprese, aviatore, nel sud dell’Italia. Come tanti di un esercito sbandato, faticosamente, ma finalmente, trovò la via di casa.

Da mesi viveva murato in un’intercapedine della cantina. Per la legge di guerra era disertore.

Appena fuori paese uomini e donne, attaccati a masserizie e bambini, battevano la mulattiera che dall’imbocco della Cannobina saliva ai monti, su, fino al confine.

Dietro, colpi sordi di mortaio e crepitare di armi automatiche.

La lunga colonna in fuga subì un semplice e distratto rallentamento quando, ai primi della fila, apparve la sagoma di un uomo riverso a terra a lato del sentiero.

Se è la disperazione a farla da padrone, viene facile distogliere lo sguardo, non vedere, e tirare diritto.

Fazzoletto rosso al collo e stella alpina ricamata sulla camicia: un partigiano. Privo di sensi.

Il pantalone di destra squarciato e duro di sangue rappreso.

Delfo toccò: respirava.

L’idea che una scala da vigna, messa là tra i filari di uva americana passati poco prima, potesse improvvisarsi barella, costrinse Luigi a ritornare, per un tratto, sui suoi passi.

L’imprevisto carico rallentò la salita, ma non impedì ai due di raggiungere in poche ore i monti di Olzeno e affidare il moribondo alle cure del comando partigiano.

La via per la salvezza, ancora lontana, stava lì, davanti a loro: le tormentate pareti di Gridone e Limidario segnavano, stranamente minacciose nella luce chiara del mezzogiorno, la linea di frontiera con la Svizzera.

Arrivati là dove il Limidario andava a confondersi con il cielo, tutto parve più distante: la paura, la guerra, i fascisti.

La forza purificatrice della montagna, in un crepuscolo che si annunciava tiepido, dava l’illusione di una sosta dolce, senza tempo. Un’illusione: prima di notte c’era da sconfinare, strappando ad un pianto bambino la forza per lasciare la vetta. Scendere. La Svizzera stava lì sotto.

Quella montagna, spartiacque geografico tra Cannobina e Centovalli, diventava in un lampo il crinale della vita: abbandonare da una parte casa, cose e affetti per inseguire, dall’altra, una speranza di salvezza.

Al prezzo di solitudine e ignoto.

Un gruppo di baite, libero da presenze sospette, sembrò premiare una discesa non agevole, nella poca luce.

Erano in Svizzera. Restava il timore, se braccati, di finire nelle mani della confinaria italiana.

La peggiore delle conclusioni.

Eclissarsi da quel mondo, la parola d’ordine. Più a lungo possibile.

La scelta del rifugio non fu quindi casuale: cadde su una stalla, albergo di pecore e maiali.

Dentro, oltre a una grossa riserva di fieno perfetta come nascondiglio, ci stava una certa quantità di castagne secche e abbondante pastone per i porci.

Nei giorni, lenti a seguire, pastone e castagne furono il companatico dei due, a discapito degli animali che un pastore, ogni due giorni, andava ad accudire: sul focolare fuori della stalla faceva ribollire la densa broda in un grosso caldar, annerito dal fumo e dal tempo.

Un mattino, però, inspiegabilmente cominciò a lasciare, sul davanzale della piccola finestra dai vetri rotti, cibo per cristiani: formaggio, pane e una piccola fiasca di americanino.

Il rituale continuò regolarmente e misteriosamente finché, in un pomeriggio bagnato dal primo autunno, l’uomo, in compagnia di un ragazzo, arrivò alla stalla gridando. Non erano urla minacciose, ma l’invito gioioso a farsi vedere, a comparire:

Saltì fora, saltì fora!                                   

Scundives mia!

L’ ée tütt a posct. 

Adess a pudii restàa in Svizzera

Fu evidente che, a pochi giorni dal loro ignoto arrivo, il pastore cominciò a sospettare. L’appetito delle bestie gli tornava smisurato rispetto al solito. Qualcuno stava sopravvivendo grazie al suo pastone? Non seguì una denuncia di clandestini alla Guardia di Confine, ma pane grigio casereccio, formaggio d’alpe e vino nostrano: lasciati lì, come fiori freschi. Espressione di generosità incondizionata.

La Pietas degli Antichi Padri.

Gli alpigiani erano Giacomo Baccalà e il figlio Claudio.

L’Alpe, il Cortaccio sopra Brissago.

Delfo e Luigi furono profughi di guerra fino a maggio del quarantacinque.

Il paltò infilato di furia nello zaino fu una benedizione nel freddo inverno Vallesano.

Delfo aveva un amico d’infanzia, il suo compagno di banco a scuola, anche lui un ragazzone: fu prelevato in quei giorni e internato in un campo di sterminio.

Non tornò mai più.

Il Partigiano ferito sopravvisse e continuò la sua lotta, ignaro di chi lo avesse salvato.

Claudio Baccalà lasciò un importante segno nella storia come passatore e, nella vita, fece l’artista a Parigi.

Luigi ebbe sei figli.

Delfo tre.

Delfo era mio padre.

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