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Il paradosso della nostra società è che, mentre si assiste a una sempre più ampia possibilità di esercizio della comunicazione, viene riducendosi la qualità del comunicare. Grazie agli strumenti di cui oggi l’uomo dispone, si moltiplicano infatti le informazioni, che ci raggiungono “in tempo reale” dall’intero pianeta e aumenta, in maniera indefinita, la possibilità di estensione della comunicazione interpersonale, grazie a internet e ad altri social ci si può mettere in relazione con persone che vivono a grandi distanze geografiche; mentre, a sua volta, crescono a dismisura le possibilità di scambio tra etnie e culture diverse, possibilità dovute ai rapidi movimenti della popolazione mondiale – si pensi ai flussi migratori – con l’apertura di confronti potenzialmente arricchenti.
Tutto questo risulta, a una prima impressione, assai positivo. Ma non si possono non rilevare i limiti connaturati a queste forme di comunicazione. Sul terreno delle relazioni interpersonali il rischio che si corre, quando la mediazione degli strumenti diviene la modalità prevalente (talora persino esclusiva) della comunicazione – dilaga oggi senza alcun contenimento l’uso di internet o dello smartphone – è quello di produrre inevitabilmente un impoverimento del comunicare, che diviene artificiale (e artificioso) per la mancanza di un contatto diretto tra le persone, che non sono presenti con la fisicità dei loro corpi. Sul terreno sociale i limiti non sono meno gravi per l’impossibilità di controllo di quanto viene comunicato, gestito da poteri – quello economico e quello politico in particolare – che fanno valere i loro interessi, servendosi peraltro di strumenti sempre più sofisticati e pervasivi che incidono profondamente sulle coscienze esercitando pesanti condizionamenti.
Le riflessioni etiche, che qui svilupperemo si muovono sui due versanti ricordati – quello delle relazioni interpersonali e quello della comunicazione sociale – con l’obiettivo principale di mettere in luce a quali condizioni è possibile restituire alla comunicazione una identità autentica, che la metta in grado di dare vita a un processo di vera umanizzazione.
L’etica della comunicazione interpersonale
Senza demonizzare i media, che hanno, in alcune circostanze, una importante funzione, se si vuole restituire alla comunicazione interpersonale tutta la sua ricchezza, occorre ridare centralità al rapporto diretto tra le persone; rapporto che consente un coinvolgimento soggettivo reale, il quale implica la presenza della integralità del proprio essere, corpo compreso, e consente che ci si relazioni all’altro anche attraverso movimenti e gesti che conferiscono alla comunicazione un pieno significato umano non perseguibile attraverso la mediazione degli strumenti.
Diverse sono le condizioni che vanno rispettate nell’atto comunicativo interpersonale, e che riguardano tanto le modalità del comunicare quanto il contenuto della comunicazione., la capacità cioè di mettersi in gioco con tutto se stessi, non avendo come obiettivo soltanto quello di trasmettere “qualcosa” ma di partecipare all’altro “quello che si è”. Il che implica, da un lato, la capacità di lasciar trasparire la propria vera identità, compresi gli aspetti negativi della propria personalità; e, dall’altro, l’instaurarsi di un clima di reciproca fiducia, che favorisce la reciproca confidenza.
Sul secondo versante – quello dei contenuti – la questione centrale è quella della verità di ciò che si comunica. Il concetto di “verità” non può essere qui inteso in senso rigidamente oggettivo: la verità della comunicazione è una forma di veridicità, in cui entrano in rapporto il dato oggettivo e la dimensione soggettiva; è, dunque, una verità che si costruisce nella relazione e che ha un carattere permanentemente aperto, nel senso che non è mai totalmente catturabile e circoscrivibile, ma sta sempre “davanti” e “oltre” e di cui non si può mai dire di essere entrati pienamente in possesso.
L’etica della comunicazione sociale
Più complessa è la questione della comunicazione sociale, dove affiorano – come già si è ricordato – potenzialità positive, ma anche consistenti rischi. Gli strumenti a tale proposito oggi a disposizione, hanno infatti, a causa della loro pervasività – la loro presenza invade tutti gli ambiti di sviluppo della vita della persona – la capacità di incidere profondamente sulla coscienza. Il che implica che il giudizio morale non possa limitarsi a valutare l’uso che se ne fa – buono o cattivo – ma debba tenere in considerazione anche la mutazione antropologica che, attraverso di esso, si produce.
e si agisce anche ad enorme distanza “in tempo reale” (in questo senso si parla di “presentismo”) –; la sostituzione del “reale” con il “virtuale” (o come osserva J. Baudrillard “l’uccisione della realtà“); la crisi del linguaggio simbolico, che è il linguaggio delle relazioni umane, sostituito da quello fisico-matematico proprio degli odierni social; la sostituzione di operazioni che erano in passato proprie dell’attività conoscitiva e mnemonica dell’uomo, con le soluzioni offerte immediatamente dai media – il che comporta una atrofizzazione della memoria e delle stesse capacità conoscitive – ; e da ultimo (ma non in ordine di importanza) l’offerta sterminata di informazioni, che amplificano il campo delle conoscenze, ma riducono la possibilità del loro approfondimento – si dà infatti un rapporto inverso tra estensione e profondità – sono altrettanti fattori che rendono ragione della mutazione cui si è alluso e che non possono non avere un ruolo di primo piano nella valutazione dell’uso che si fa degli strumenti tecnologici.
Alla considerazione di questa “non neutralità” degli strumenti si aggiunge, e ha un peso di grande rilievo, il potere di chi li gestisce e che – come si è già accennato – fa capo principalmente al potere economico che, a partire dai grandi trust mondiali, persegue la ricerca dei propri interessi, facendo leva su un mercato liberista, che, oltre ad essere mercato unico mondiale, assume anche i connotati ideologici di “pensiero unico” – è questo un altro fattore non secondario della mutazione antropologica cui si è accennato – e si ispira a criteri utilitaristici – quelli della produttività e del consumo – che finiscono per avere il sopravvento anche nell’ambito delle scelte delle singole persone. La domanda di senso, la quale conferisce valore umano all’agire, è sostituita dalla domanda circa il perseguimento dell’utile produttivo: ciò che ci si chiede, quando ci si trova nella condizione di dover fare delle scelte, non è più che senso ha ciò si sta per intraprendere, ma è utile o non lo è, serve o non serve.
Sono noti i pesanti condizionamenti di questo modo mercantilistico di procedere tanto a livello individuale che sociale e politico. La potenza dei social attuali esercita una forte pressione sulle scelte dei singoli – si crea, al riguardo una forte dipendenza non criticamente percepita per la quale anziché scegliere si è scelti – e non manca di interferire, in misura determinante, su quelle della politica, spesso ridotta a variabile dipendente del potere economico che le sottrae il proprio spazio di azione e impedisce l’esercizio della sua originaria funzione di guida della vita della società in vista del perseguimento del bene comune. Questo avviene – lo si è visto anche nel caso italiano in occasione delle ultime tornate elettorali – tanto attraverso interventi diretti – le fake news sono un esempio eclatante di questa modalità che si propone di distorcere la verità – quanto attraverso un sistema più mascherato, e dunque più subdolo, che fa leva sulle “mezze verità” incidendo in questo modo ancor più profondamente sulla coscienza.
La verità della comunicazione, che non è anch’essa “asettica”, ma implica inevitabilmente un processo interpretativo – l’affermazione “i fatti senza le opinioni” è una falsificazione della realtà (ogni fatto viene sempre interpretato) – è volutamente distorta per le finalità che si perseguono, e assume di conseguenza un carattere strumentale e mistificatorio, che soltanto l’affermarsi di un diffuso senso critico – purtroppo ancora elitario – è in grado (almeno parzialmente) di arginare.
Quali le vie da percorrere per reagire a questa deriva?
La situazione allarmante (e inquietante) descritta non può non sollevare l’interrogativo: che fare dunque per contrastare questa deriva antropologica e sociale? Si è già accennato all’esigenza del senso critico, ma esso ha bisogno, per diventare appannaggio dei comuni cittadini, dell’attivazione di un serio processo educativo – è questa la prima via – che, oltre a sollecitare la nascita della domanda di senso e di fornire un preciso quadro valoriale che presieda alle scelte personali, fornisca anche conoscenze precise dei meccanismi soggiacenti all’azione dei media e degli effetti psicologici e sociali da essi prodotti, contribuendo in questo modo a desacralizzarli e a generare gli anticorpi in grado di contenerne gli effetti negativi. Tutto questo senza dimenticare l’esigenza di un loro uso parsimonioso, che eviti di incorrere in forme di dipendenza patologica, purtroppo assai estese. La distanza tra la rapidità con cui la mutazione tecnologica avviene e la inevitabile maggiore lentezza con la quale la coscienza si evolve non facilita l’esercizio di questo compito: si pensi soltanto all’uso smoderato dello smartphone che si verifica non soltanto nel mondo giovanile, ma anche in quello degli adulti, che tendono ad essere permanentemente connessi, dedicando uno spazio consistente del loro tempo alla trasmissione di messaggi – spesso più ore al giorno – e alle chiamate dirette.
Ma questo non basta. È anche necessario – è questa la seconda via – un impegno del potere politico a fissare norme precise che regolino il mercato mediatico, imponendo limitazioni al suo accentramento nelle mani di una ristretta oligarchia e fissando limiti anche alla loro possibilità di espressione, senza incorrere per questo in indebite forme di censura, ma evitando che la comunicazione provochi un radicale distorcimento del costume e solleciti soprattutto l’uso della violenza. Non è certo facile oggi l’esercizio di questa funzione. La dipendenza segnalata del potere politico da quello economico impedisce spesso di assolvere a questo compito. Essenziale è dunque la ripresa di centralità della politica, che deve uscire dal provincialismo degli Stati-nazione per acquisire una dimensione universalistica e ricuperare credibilità e autorevolezza così da poter incidere con efficacia sui processi economici e sociali, spingendoli al perseguimento del bene dell’intera collettività mondiale. Si aprirebbe qui un nuovo (importante) capitolo, ma non è questo il momento per aprirlo.
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