Intorno alla metà di marzo di quest’anno, una notizia ha agitato la quiete di questo estremo lembo di suolo italico incuneato tra laghi e monti, terra di genti che strapazzi e distrazioni della storia hanno reso poco inclini a sensibilità, slanci e passioni per ciò che esorbita il tepore domestico, la cura della bottega o l’ombra del campanile.
Ma la notizia è davvero grossa. Se la provincia sobbalza, il capoluogo sanguina: “L’ospedale Castelli di Verbania è il peggiore d’Italia”! Non, si badi, tra i peggiori; no, proprio il peggiore di tutti!
La notizia si affaccia e dilaga in rete; in un momento, solleva un polverone di commenti orientati, più che all’incredulità (come forse sarebbe lecito attendersi in un territorio non proprio sottosviluppato), a mitragliate di recriminazioni, che ri-scorperchiano i mille risentimenti mai sopiti, generosamente alimentati dal retroterra di ventennali diatribe, inconcludenti quando non soltanto sgangherate, riguardanti le tristi vicende della sanità provinciale, emblematicamente rappresentate dallo storico irrisolto rosario di dilemmi: ospedale unico si o no? e, se si, dove? qui, là, sopra, sotto? e di due sole certezze: da me, non da te, ma se non da me, nemmeno da te!
Il grido di dolore ha origine da un comunicato stampa del 17 marzo di un comitato da anni sostenitore del Castelli, che riprende la notizia, senza ulteriori dettagli, da un giornale on line (ildunque.it) riportandone il link (da tempo non più raggiungibile). La notizia era già apparsa, quanto meno, il 10 marzo (qui), sempre senza informazioni utili a capirne origine e attendibilità, e il 16 marzo anche qui, finalmente corredata da qualche informazione supplementare. A questo punto si incomincia a capire qualcosa: innanzi tutto sembra esserci stata una ricerca dell’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) per il Programma Nazionale Valutazione Esiti (Pne), per conto del Ministero della Salute. Però, dopo averci dedicato una mezz’oretta di ricognizione in rete, la ricerca c’è ma questi dati non si trovano. Bisogna accontentarsi di quanto desumibile dall’ultimo link qui sopra citato.
Si scopre così che lo strillo, innanzi tutto, fa d’ogni erba un fascio, scambia la parte per il tutto, perché non è l’ospedale tout court “il peggiore d’Italia”, ma è, semmai, un particolare esito della Cardiologia: il tasso di mortalità nei trenta giorni successivi al ricovero per infarto nel reparto di Cardiologia. Al reparto del Castelli i decessi risultano essere 25,08%, il tasso più alto di tutti…, pardon, più alto degli ospedali presi in considerazione dalla ricerca, non sappiamo infatti se la rilevazione sia stata condotta sulla totalità degli ospedali italiani o su un campione (come se la cosa fosse irrilevante). Il tutto però “certificato” da un bel grafico colorato, a istogrammi orizzontali, con su in cima, per primo, esposto al pubblico ludibrio, il nominativo “Osp. Castelli – Verbania”, su cui non campeggia però il titolo “Quali sono gli ospedali peggiori”, ma “Gli ospedali con la maggiore mortalità per infarto”, differenza non da poco. Ma nemmeno così va bene.
Il Direttore SOC Cardiologia del Castelli, personalmente sotto tiro, però smentisce tassativamente quel dato e il 20 marzo un comunicato ufficiale dell’ASL VCO ribadisce: “È di tutta evidenza la natura incompetente, imprecisa e fuorviante delle notizie apparse sul sito internet (…) I dati aggiornati al 2021 reperibili sul Programma Nazionale Esiti di AGENAS riferiti alla cardiologia dell’ASL VCO sono ben diversi e allineati ai dati nazionali, in alcuni casi migliori. Dati che smentiscono categoricamente quanto pubblicato”.
Basta così? No. Poco sotto quell’istogramma, la ciliegina sulla torta: un’ineffabile annotazione informa che “I dati si riferiscono al: 2007-2011”. Dalla qual cosa si dovrebbe dedurre, astenendosi per una volta dall’andreottiano “a pensar male…”, che sia lecito ricorrere a dati vecchi di quindici anni per descrivere un fenomeno d’attualità; sempre ammesso, ma non scontato, che quei dati siano ineccepibilmente corretti. E ancora non basta: se quell’indicatore (il tasso di mortalità nei trenta giorni successivi al ricovero per infarto) viene rilevato periodicamente, che senso ha indicare un range di un quinquennio?
In conclusione, un incredibile pasticcio. Un’informazione, che qualche dubbio già poteva sollevare fin dal principio, priva delle necessarie verifiche, lanciata e ripresa scriteriatamente da più soggetti che pubblicamente agiscono, che suscita un groviglio di repliche in cui solo a tratti emergono barlumi di ragionevolezza. Un caso emblematico di corto circuito informativo-comunicativo.
Per carità, non soltanto non prendiamone esempio, che è proprio il minimo che si possa fare, ma teniamocene accuratamente alla larga o, se proprio non ci riesce, asteniamoci almeno dal prender parte alla generale e insensata scazzottatura.
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