Nell’ottobre scorso siamo partiti con un nuovo progetto intitolato Mamme a scuola: da anni l’Associazione Nonsoloaiuto di Verbania si occupa dell’insegnamento dell’italiano a persone di recente immigrazione e finora abbiamo sempre lavorato con gruppi in prevalenza maschili. Effettivamente, in base alle rilevazioni ISTAT (1/1/24), la popolazione immigrata maschile nella Provincia di Verbania è più numerosa di quella femminile nella fascia di età fino ai 33 anni, per arrivare poi a invertire il rapporto dai 40 anni in su, fascia in cui il numero di donne immigrate residenti nella nostra Provincia, probabilmente in seguito a ricongiungimenti familiari, supera quello degli uomini. Lo scarto tra popolazione maschile e femminile fino ai 30 anni, però, pur evidente, non giustifica la grande inferiorità numerica di ragazze iscritte ai nostri corsi di Italiano. E quindi, come si spiega?
In un Paese, l’Italia, in cui il saldo demografico è negativo, le donne straniere non frequentano corsi di Italiano e ancor meno, conseguentemente, corsi professionalizzanti, perché sono impegnate a crescere i loro bambini in età prescolare, senza nonni pronti ad aiutarle e relegate nel ruolo di mamma a 360°, 24 ore al giorno, perché, non lavorando, non entrano in posizione utile nelle graduatorie degli asili-nido. Sono donne ad una dimensione, quella di mamme.
Le “mamme a scuola” sono mamme internazionali, che vivono simbioticamente con i loro bimbi più piccoli, spesso legati strettamente con fasce multicolori sulla schiena, pronte ad affrontare giornate faticose con una sorta di mite determinazione negli sguardi. Ma sentono di vivere in un paese straniero, di cui non conoscono la lingua né la cultura e tutto è per molte di loro mediato dai loro mariti o compagni, che spesso hanno trovato lavoro, hanno imparato la nostra lingua, conoscono la realtà cittadina e si muovono più disinvoltamente in essa.
Queste mamme, spesso invisibili per tutti tranne che per i loro bambini, hanno scelto di mettersi in gioco iscrivendosi al nostro corso. La loro sfida è andare a scuola. Per molte di loro è la prima volta. E per questo la loro sfida è doppia: imparare a leggere e a scrivere innanzitutto, e poi imparare a leggere, a scrivere, a parlare e, infine, a pensare in italiano.
La mattina, quando ci troviamo a lezione, l’aula accoglie un concentrato di mondo davvero multietnico: le nostre studentesse entrano e salutano con il sorriso, con i bambini a volte addormentati in braccio o sulle spalle. Le nazionalità presenti sono sono 10: quelle rappresentate in maggioranza sono africane (Senegal, Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea, Marocco, Tunisia), ma c’è anche una componente asiatica, da Bangladesh e Turchia e una studentessa bosniaca.
I tempi e i ritmi non sono quelli cui siamo abituati nelle nostre scuole. La frequenza non è per tutte regolare, dipende dalle necessità della famiglia, perchè bisogna fare i conti con le malattie dei bambini, le difficoltà negli spostamenti con i piccoli se piove, con le convocazioni per i documenti, con le vaccinazioni per i bambini… e anche i ritmi di apprendimento sono diversi.
Quello che accomuna tutte è il mettersi in gioco con il desiderio di superare le difficoltà, affiancato da uno spontaneo spirito di collaborazione: chi ha finito un compito spiega alla vicina come procedere, se ci sono dubbi; la battuta, l’ironia rendono vivace la lezione e il vissuto di ognuna sbuca qua e là, tra le parole che, prima timidamente, poi con maggior sicurezza, danno corpo alle lezioni. Si discute delle trame e dei colori delle stoffe africane, diverse e caratteristiche di ogni paese, della ricetta originale di un dolce o della tintura con l’hennè sulle mani della sposa.
Ma l’elemento che inevitabilmente fa la sua comparsa ad ogni lezione, quando parliamo di noi, è la nostalgia, la mancanza. Manca, a ciascuna di loro, innanzitutto la vicinanza a chi è rimasto nel paese d’origine: per tutte i genitori o i nonni, ma molte di loro sono dovute partire lasciando affidati a sorelle, mamme o addirittura ad amici altri loro figli, che stanno crescendo lontani e che alcune di loro non vedono da anni.
Ma mancano anche le piccole abitudini del quotidiano: ritrovarsi con le amiche bengalesi a bere il tamarindo, la cucina affollata per preparare il thiebudjine senegalese o una giornata trascorsa al mare con la famiglia.
E manca loro il sentirsi accolte, il sentirsi parte di una comunità.
L’appellativo straniere grava sulla loro vita di tutti i giorni, perché inciampano in parole di una lingua che non è ancora la loro, che non sanno piegare alle loro esigenze che non siano primarie, fatte di compiti quotidiani, come fare la spesa, accompagnare i bambini a scuola o dal pediatra, ma che non servono a comunicare davvero il loro stato d’animo o a intrecciare rapporti d’amicizia.
Ci piace pensare che, almeno nelle mattine in cui ci ritroviamo per fare scuola, queste lezioni costituiscano un momento di normalità di vita, volto ad accrescere altre dimensioni interiori nelle nostre studentesse, a fianco di quella legata alla maternità.
Con loro abbiamo anche svolto un piccolo laboratorio di “poesia” e i quadri che hanno costruito con le loro parole sono ricchi di ricordi e speranze. Sono testi che solo in minima parte riescono a riprodurre la ricchezza dei loro pensieri, dei loro ricordi e dei loro sogni, perché le parole di cui dispongono sono ancora molto meno numerose delle loro idee…
Ne trascrivo alcuni:
Ho nostalgia del mio paeseVorrei comprare tanti dolci
la domenica con la mia famiglia andavo al mare.
Rivedo gente allegra,
la sabbia chiara, l’acqua azzurra, i pescatori
e i venditori di gelati e dolci.
I bambini sulla spiaggia giocavano a calcio.
Risento il profumo di sale,
seduta su una roccia,
cantavo.
per chi non ha niente:
baklawa e panache, macarons
pistacchi, noci e mandorle
come per la fine del Ramadan.
Appena arrivata in Italia capivo solo “ciao”,
adesso so parlare un po’ italiano e mi piace comunicare,
ma mi sento ancora straniera.
Mi piace fare le trecce alla mia bambina,
perché quando le faccio
mi sento africana.
“Quando mi incontro con le giovani mamme italiane, parliamo e ci accorgiamo che abbiamo le stesse emozioni”: è questo, detto semplicemente da una nostra studentessa, il punto centrale dell’esperienza: se, per citare don Milani, la parola è la chiave fatata che apre tutte le porte, il primo passo per una vera inclusione è ovviamente l’apprendimento della lingua italiana.
E inevitabilmente torno a citare le parole della Lettera a una professoressa degli allievi di don Lorenzo Milani: Solo la lingua fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli.
I corsi pubblici di Italiano per adulti del nostro territorio, che pure accolgono numeri limitati di aspiranti studenti, non hanno recepito questa esigenza. Gli unici corsi aperti a donne con bambini nella nostra città sono organizzati da associazioni e enti non pubblici: da anni la Chiesa Evangelica di Intra ne ha attivato uno e da quest’anno anche Nonsoloaiuto, che si avvale di un servizio di babysitteraggio
Sono contenta di essere con la mia bambina in Italia, perché così deve andare a scuola e avrà una vita diversa dalla mia: così scrive una nostra studentessa arrivata da poco in Italia da sola con la sua bambina. Sono parole che non possono lasciarci indifferenti: affermano la sua certezza che sia valsa la pena di affrontare un viaggio più drammatico di quanto possiamo immaginare, spinta dalla speranza di una vita migliore per la sua bambina, ma anche per se stessa.
Sta a noi ascoltarla.
- Don Lorenzo Milani, Lettera del 28/3/56 a Ettore Bernabei, direttore del Giornale del mattino di Firenze.
- Il progetto Mamme a scuola è ospitato nei locali della Parrocchia di Renco e il lavoro svolto da educatrici della Cooperativa Azimut di Renco è finanziato da Rotary Club Pallanza Stresa e Soroptimist International del Verbano.
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