“Ragazza ubriaca violentata da un gruppo di amici”, “A causare la tragedia la difficile separazione tra il padre e la madre”, “Padre uccide i due figli, era sconvolto dalla separazione”, “Era un uomo riservato, afflitto da problemi economici”
Quante volte, nei casi di violenza maschile sulle donne, leggiamo titoli di giornale o frasi di questo tipo? Dall’ultimo caso del finanziere di Cisterna di Latina che ha ucciso la madre e la sorella della fidanzata, allo stupro di gruppo della ragazzina di Catania e via dicendo, assistiamo troppo spesso a una narrazione tossica e voyeuristica della violenza. Una narrazione in cui si perde il confine tra la vittima e il carnefice, confondendo i piani e ribaltando le responsabilità. In questa narrazione, permeata dai pregiudizi, la voce delle vittime si perde e resta quella del carnefice per cui – nonostante il gesto – vengono ricercate delle motivazioni.
Il carnefice è descritto una volta come il bambino con un’infanzia difficile, poi come l’insospettabile esasperato da una possibile separazione, infine come un uomo afflitto da problemi economici, preoccupato, magari incompreso. Tutti elementi che nulla hanno a che fare con la violenza maschile sulle donne che, di fatto, nasce da un’unica motivazione quella del possesso. Una narrazione che non solo non restituisce giustizia a chi non c’è più ma si rende complice di un capovolgimento di responsabilità, confondendo vittima e femminicida o figlicida. Occorre aprire una riflessione profonda sul persistere di questo tipo di narrazione, così come sul permanere di pregiudizi di genere nelle redazioni, nonostante il Manifesto di Venezia parli chiaro invitando a utilizzare la parola femminicidio per l’omicidio di una donna in quanto tale e di escludere ogni com- mento che suoni come un’attenuante.
Chiediamo una comunicazione responsabile che eviti la vittimizzazione secondaria, la spettacolarizzazione della violenza, che tute- li la privacy delle donne, ad esempio, nei casi di violenza sessuale ma soprattutto che sia portavoce di giustizia e verità. Le donne muoiono per mano di chi le uccide, per ragioni di possesso e di violenza e non per i traumi infantili, problemi economici, depressione o quant’altro.
Oggi è il caso di Cisterna di Latina, ieri lo stupro di gruppo di Catania e via dicendo. Di narrazioni come queste ne abbiamo piene le tasche.
Manuela Campitelli, giornalista professionista laureata in Scienze Politiche. Ha iniziato a lavorare a 18 anni come giornalista, prima nei quotidiani locali romani, poi per il settimanale di informazione indipendente Carta e infine come addetto stampa nelle istituzioni pubbliche. Attualmente segue l’ufficio stampa di Fondazione Pangea Onlus, che si occupa di empowerment socio economico delle donne in Italia e in altre zone del mondo e di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne attraverso la rete antiviolenza Reama. Ha aperto il blog genitoriprecari.it, per raccontare storie di ordinaria precarietà ma anche per creare una rete di mutuo soccorso tra genitori “atipici”, senza nido e senza posto fisso. Nel 2012 ha fondato l’associazione Punto D, che si occupa della promozione della salute e del benessere psicofisico delle donne, dell’effettivo esercizio dei diritti inviolabili, del contrasto della violenza e delle discriminazioni di genere e dell’esclusione sociale, politica ed economica delle donne. Dagli inizi del 2013 collabora con Donne di Fatto, la sezione femminile del Fatto Quotidiano. Scrive di attualità in un’ottica di genere, raccontando la forza dei diritti delle donne.
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