Per Zygmunt Bauman l’identità è qualcosa “perennemente in statu nascendi”[1]. In un mondo in costante cambiamento, infatti, dove ambienti, professionalità, stili di vita, riferimenti culturali mutano rapidamente, si ibridano e evolvono (o a volte regrediscono…), parlare di un’identità stabile e definitiva non solo ha poco senso, ma addirittura, quando al concetto di identità si salda quello di confine o di sangue e se esso si nutre del rifiuto dell’Altro, assistiamo alla nascita di un mostro con cui non vorremmo più confrontarci.
Interessante è invece la visione di un’identità come rapporto tra “qualcosa che si mantiene fisso e qualcosa di mutevole”, che genera accoglienza positiva delle differenze con arricchimento reciproco, come scrive Giannino Piana in “L’alfabeto dell’etica”. E il risultato di questa fusione che non si può definire una volta per tutte è contemporaneamente “stabile e provvisorio, individuale e collettivo, soggettivo e oggettivo”[2].
E sempre Bauman riporta un’osservazione acuta di Franḉois de Singly, il quale invita ad abbandonare la metafora delle radici e dello sradicamento nelle teorizzazioni sulle identità, a favore di una immagine meno “definitiva e irrevocabile”, quale quella delle àncore, issate e gettate in contesti nuovi, generatori di possibilità di cambiamenti aperti a scenari sempre fertili e suggestivi.
Venendo alla realtà più vicina a noi, alla nostra città, mi chiedo se abbia ancora senso andare alla ricerca di un’identità perduta, come del tempo proustiano. E se le identità individuali sono un intreccio di continuità e discontinuità, quali aspetti vogliamo salvaguardare della sua identità condivisa, proponendoci di mantenere in vita e stimolare quanto resta di un’identità “almeno” verbanese, se non provinciale del VCO (e viene a proposito l’osservazione di G.M. Ottolini sul precario stato di salute di un sentimento di appartenenza alla realtà provinciale del VCO, se non esiste nemmeno un aggettivo per indicare il territorio nella sua completezza)?
Penso di sì, penso che valga la pena di impegnarsi ancora in un tenace sforzo di ritrovare la trama di una visione comune capace di aprirsi a progettualità ben ancorate al territorio, almeno per due ragioni, una pragmatica e una più ideale.
Cominciamo da quella ideale: noi viviamo qui e ora e il nostro ambiente è costituito dall’interazione di luoghi, memorie e identità soggettive, che però, se condivisi, potrebbero essere un valido antidoto all’individualismo egoista sempre più minaccioso e diffuso. Il patrimonio culturale sedimentato nella nostra città e disseminato nelle sue vie, nelle piazze e sulle rive del lago merita di essere guardato con occhi nuovi, aperti al riconoscimento di una memoria che ci appartiene, ma che appare tanto diluita, se non sbiadita, da non sembrarci attraente.
“Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche se non ci sei resta ad aspettarti…” scriveva Cesare Pavese; ancora di più questa comunione viene conservata nelle architetture e nelle località che appartengono a una storia cittadina. Bisogna però conoscere e riconoscere le tracce dei percorsi, le mappe da seguire per non perderci. E su questo ritorneremo a breve.
Veniamo ora alla motivazione pragmatica: un amico mi ha segnalato un articolo di Vanessa Thorpe pubblicato sulla rivista “The Guardian” [3], che presenta i risultati di uno studio condotto da Silvia Cerisola del Politecnico di Milano per Historic English[4]. Riporto dall’articolo alcune delle considerazioni conclusive della ricerca: “per risollevare l’economia di regioni inglesi in declino la via migliore è investire nel suo passato culturale, piuttosto che in nuovi business”; e ancora: “dove nuove comunità artistiche e scientifiche si ricollegano al patrimonio identitario c’è maggior produttività e crescita d’affari”. E “sappiamo che il patrimonio culturale è un catalizzatore per la rigenerazione, potenzia l’orgoglio locale e fa sentir bene la gente: il 93% delle persone concorda nel ritenere che il patrimonio artistico locale migliora la qualità della loro vita”.
A questo punto sembra suggestivo confrontare le affermazioni sopra riportate con quanto scriveva nel 2003 l’allora Assessore alla Qualità della Vita del Comune di Verbania nella presentazione di un testo datato, ma evidentemente ancora prezioso, intitolato Mappe della Memoria, pubblicato quell’anno dal Comune[5]: “In una società locale coesa e dotata di forte identità la pratica dei valori comunitari dispiega i suoi effetti e tutti ne hanno beneficio. Detto in modo differente, è la qualità della vita della comunità nel suo insieme e dei singoli componenti che ne trae vantaggio”. Partendo da questo assunto, l’Assessore presentava la pubblicazione di un testo che non voleva essere una guida per turisti, ma un aiuto per chi a Verbania vive, proprio per ricostruire “la memoria che serve a corroborare e rinvigorire identità e appartenenza”.
La nota di presentazione del testo, di cui consiglio la lettura, chiarisce le motivazioni per cui è utile “rimpolpare un po’ la mappa della memoria comune di ciascuno di noi” e traccia anche una breve storia della nascita dell’identità verbanese plasmata nel secolo scorso attorno allo stabilimento della Rhodia, che ne ha modificato l’impianto urbanistico, la socialità, i ritmi e perfino il sistema scolastico, fino alla conflittuale fine dell’era industriale negli anni’70-‘80 e la conseguente fase di crisi che ha visto sfaldarsi tale identità industriale collettiva, frantumata “nelle molteplici affiliazioni che caratterizzano il mosaico della terziarizzazione postindustriale”. Di conseguenza, “il sentimento di appartenenza si affievolisce e con esso la memoria”.
In “Mappe della memoria”, che presenta un centinaio di schede sui luoghi significativi del nostro territorio redatte da Antonio Biganzoli, il punto di vista non è solo quello dello storico: pur partendo da una contestualizzazione precisa, infatti, lo sguardo oggettivo dello storico si ammorbidisce nella dimensione della memoria. E non si tratta di memoria individuale, ma di una memoria cittadina, che ritrova un Genius loci nascosto nei vicoli di Intra, di Pallanza e di Suna, nel ricordo di una Canonica demolita, di un Teatro e di un castello abbattuti, sull’Alzaia, ora lungolago affollato di passanti, passeggini e biciclette.
L’invito è di andare a rileggere quelle pagine, ci sentiremo un po’ più ricchi di un patrimonio di cultura a portata di mano che, se trascurato, potrebbe andare perso: si sa che la memoria va esercitata, altrimenti rischia di svanire, con il passare degli anni.
A proposito, dimenticavo: l’Assessore alla Qualità della Vita oggi scrive su questa rivista.
Per approfondire:
[1]Zygmunt Bauman, L’arte della vita, Editori Laterza, Bari, 2008, p. 105 e segg.
[2]Claude Dubar, La socializzazione. Come si costruisce l’identità sociale, il Mulino, Bologna, 2004
[3]https://www.theguardian.com/culture/article/2024/aug/11/invest-heritage-boost-wealth-english-towns-historic-england
[4]https://www.google.com/search?client=safari&rls=en&q=silvia+cerisola+historic+england&ie=UTF-8&oe=UTF-8
[5] Poi, nuovamente, nel 2007 da Tararà Edizioni, Verbania.
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