Le rosse erano il problema: diverse e forse un po’ sfacciate nella loro bellezza. Discrezione e misura questa volta non facevano per me, qualcosa mi diceva che il passo più lungo della gamba fosse lì, pronto da fare. Osare, esagerare, poteva essere il segreto.
Niente limitazioni alle fantasie né consigli di chi conoscesse anche le altre, per virtù o difetti. Nessuno mi avrebbe convinto che le rosse fossero irraggiungibili: un miraggio, pura presunzione. Convinto di avere qualche carta da mettere in gioco, mi abbandonai all’emozione di un pensiero affettuoso: con loro avrei condiviso una stagione nuova.
Emozionato gli andai incontro: stavano in disparte, sofisticate ed eleganti.
Neppure il gesto di allungare la mano che una voce, da dietro, mi apostrofò.
Ma ti pareva? No che non le conoscevo, altrimenti che amore a prima vista sarebbe stato…!?
Ma chi gli aveva chiesto niente a quello? Perché quell’attenzione morbosa?
Più cercavo di defilarmi, più il mastino mi stava addosso.
Piazzato tra me e loro, quasi risentito, aggiunse:
Invece no. Con l’aria di quello che si è alzato la mattina convinto a farti fuori, rincarò la dose con una raffica di domande a risposta rigorosamente chiusa.
Forse per quella crudeltà che l’imparato esterna quando si trova per le mani un improvvisato, passò a una domanda francamente aperta:
E finalmente presi in mano le mie scarpe: quarantotto, il mio numero, ultimo paio, scontate di un buon “quarantapercento”. E rosse.
Probabilmente gli specialisti avevano un piede più normale del mio: le valige stavano lì, invendute, chissà da quando.
Non ci volevo credere, il primo passo era fatto. E che passo.
Sulla strada avrei lasciato un’impronta importante, da professionista, non una qualunque. Come guadagnare almeno cinque di quei quarantadue chilometri e centonovantacinque metri: da casa fino all’ultima pianta del lungolago di Mergozzo e ritorno, per due volte. Circa.
Era il prezzo da pagare per la mia nuova infatuazione. Un contagio inarrestabile. Un virus, uno fra i tanti che gli amici, inspiegabilmente, amano passarti. La malattia del maratoneta.
Luca, che correva a cottimo, diceva della corsa in modo contraddittorio: da una parte fonte di dipendenza, dall’altra espediente per liberarsi dalle tensioni quotidiane. Bastò l’idea del liberatorio per farmi immaginare che mutuo per la casa, bambini da tirar grandi, ambulatorio da qualificare e lavoro totalizzante, potessero diventare marginali. Almeno per un momento.
L’illusione del maratoneta.
Qualcosa di più profondo che non la semplice utopia condizionava, forse, scelte e investimenti: ad un certo punto la vita pare chiedere di guardare in faccia il tempo. Senza pensarci troppo ci si volta dall’altra parte e si guarda alla maturità come a un semplice giro di boa, per migliorare il vento.
Avevo le scarpette rosse e poco più di due settimane per dare credibilità a una chimera.
Volevo la luna senza sacrificare le stelle: concretizzare una forma fisica decorosa nulla rubando alla quotidianità. La notte stava dalla mia parte. Uscire col buio, macinare kilometri e tornare in orario per doccia, vestizione bambini, colazione bambini e inizio giornata.
La disperazione del maratoneta.
Gli amici, quelli da due paia di scarpe l’anno lasciate sull’asfalto, mi avevano proposto Torino come battesimo irrinunciabile. Una maratona da vivere metro dopo metro tra magia e storia, in piena allegria. Raccontavano di bande musicali piazzate ai crocevia, ricchi punti di ristoro, pubblico bendisposto ed entusiasta. Immaginai una Piedigrotta piemontese, tutta da correre. Magnificavano il piacere di galoppare per ore in compagnia sostenendosi a vicenda, chiacchierando e scherzando, mentre tutto, sotto i piedi, scivolava via.
La solidarietà del maratoneta.
Decisi di partire il giorno prima, con famiglia felicemente al seguito, cane compreso. Il vecchio camper mi avrebbe regalato un sonno ristoratore nella notte di vigilia: libero dal pensiero di un risveglio all’alba per il trasferimento. Una mossa che sapeva già di strategia.
I gemelli si erano organizzati uno striscione. Ricavato da un lenzuolo che la loro nonna cerca ancora oggi, riportava la scritta PAPÀ CORRI FORT, tracciata in rosso con pesanti pennellate di vernice antiruggine. Nell’ entusiasmo si erano tenuti un po’ larghi: per la E niente spazio. Matteo, più tecnico e di qualche anno più grande, si era procurato un cronometro, prestito di un compagno di scuola. Voleva monitorare l’andatura. Non gli riuscì. In viaggio si esercitò tanto da far fuori le pile. Dove trovarne di nuove e di quel dannato formato il sabato a sera tarda?
Cristina c’era, ma non c’era. In accordo, per una volta, col suocerapensiero che a un maratoneta puzzasse la salute, osservava i preparativi con sguardi di compassione.
La famiglia del maratoneta.
In un attimo fu giorno. Altrettanto al volo mi ritrovai sulla linea di partenza, o meglio, a qualche centinaio di metri dove mi aveva piazzato l’amico più tecnico.
Due parole di incoraggiamento servono sempre.
Ci volle poco e le teste dei miei soci sparirono nella marea di gente colorata che mi stava davanti. Mentre tutt’attorno la massa si diluiva nel paesaggio, con il piglio di chi la sapesse lunga mossi i primi passi. La tattica ben chiara in testa: vado piano, tranquillo, tengo da conto, li lascio andare. Recupero poi tutti verso la fine.
L’imperizia del maratoneta.
Metro dopo metro, chilometro dopo chilometro, non fu difficile capire che il mio limite fosse dietro l’angolo: la soglia dell’allenamento, il fondo di base, l’avevo superato da un pezzo. Anche il suono dei miei passi, impietoso, lo confermava.
Da un ritmico e assonante
Si era trasformato in un disarmonico e dissonante
Tra i pensieri superstiti aggrappati agli ultimi neuroni ossigenati, affiorò il consiglio del Beppe, un veterano della fatica:
Chissà perché, tra tutti i motivetti possibili, nel cervello esplose Fin che la barca va…
Una polketta, anche un po’ stupidotta: ci stava, comunque, per titolo e ritmo. Sempre meglio di un valzer. L’orologio, un normale Swatch senza timer o cronometri, rammentava inesorabile quanto mi trovassi in costante e crescente ritardo… e non era il solo segnale.
Di bande e gruppi musicali, non ne avevo sentito uno: al mio passaggio strumenti e palchetti erano già ritirati. Dei rifornimenti rimaneva il mare di bottiglie e bicchieri vuoti, abbandonati sul selciato dai tanti che si erano rifocillati ormai da un pezzo.
La folla entusiasta e incitante se n’era andata. Solo da qualche auto bloccata in attesa del mio passaggio, qualche ma stattene a casa arrivò ben colorito e senza equivoci. Anche l’aria sembrava metterci del suo, intrisa com’era dagli aromi e dai profumi del pranzo di una domenica piemontese. Quegli odori, appiccicati alle mucose respiratorie sensibilizzate dalla fatica, esasperavano la malinconia. La fame faceva il resto. Il tarlo del “Ma chi me l’ha fatto fare?” cominciava a far scricchiolare la mobilia.
La solitudine del maratoneta.
Quando il timore del fuori tempo massimo stava paralizzando quei pochi muscoli non ancora curarizzati, apparve a bordo strada il cartello del quarantesimo chilometro. Ero quasi a casa.
Più che una botta di adrenalina,fu l’ultima goccia spremuta dalle surrenali a rimettere in gioco un piede dietro l’altro fino allo striscione di arrivo: irraggiungibile. Ero sul tappeto dei centonovantacinque metri quando un urlo interruppe la cantilena dello speaker,: ”dai papà che sei arrivato!!” Uno dei gemelli, non vedendomi arrivare neppure tra i più sfiniti, aveva cominciato a tampinarlo tanto che, divertito, se lo prese a fianco. Lo emozionò l’apprensione e l’orgoglio di un bambino nell’attesa, comunque, del suo eroe.
Avevo concluso in cinque ore e quarantacinque. C’ero dentro per quindici minuti. Un pezzo di eternità per sentirmi maratoneta.
Portai a casa un medaglione commemorativo e una fascite che per un mese mi lasciò a malapena camminare.
Il camper tornò a casa grazie a Cristina: bloccato da contratture e crampi fui sottoposto, per l’intero viaggio di ritorno, a crioterapia: i gemelli non credevano ai loro occhi: potermi cacciare ghiaccio ovunque senza che fiatassi.
Il sogno delle scarpette rosse volanti si era infranto sull’asfalto torinese. Inefficienti, addirittura dannose per uno della mia stazza e con difetto di pronazione, non avevano corretto né ammortizzato alcuno dei circa 50.000 passi infilati uno dopo l’altro. Pensai al mastino di venti giorni prima…
Mi convinsi di essere un esteta e di avere scelto la bellezza.
L’imbecillità di un novello maratoneta.
La malattia non lasciò speranza per quasi due anni nei quali ebbi la sensazione di non fermarmi mai. Corsi altre otto maratone, due in montagna. Seguii con tanta devozione i consigli del mastino, grande tecnico e mago della corsa, che ci infilai anche un certo numero di mezze e di campestri. Senza sofferenze e col piacere ogni volta di una sfida nuova.
I tempi?
Quando non c’era il sole a volte pioveva …
La guarigione arrivò senza preavviso. Abbandonai la corsa da un giorno all’altro. Non ci stavo più dentro.
La musica, fino a quel momento solo una delle tante passioni, stava aprendo inaspettati e gratificanti orizzonti.
Ma questa è un’altra storia.
Foto di copertina: Immagine di prostooleh su Freepik
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