La scelta dei pannolini di cotone non fu una grande idea.
Che fossero biologici, “equi e solidali”, lavabili e riutilizzabili, non ci stava in quei giorni di inizio inverno. I quattro locali dove si viveva, su in cima al borgo, non avrebbero visto il sole fino a Sant’Antonio del porcello. Ben ordinati e in fila, sei quadrati di tela, ridotti ad una crosta di ghiaccio, pendevano dalla corda in plastica blu annodata al balcone che guardava sull’orto. Ormai da tre giorni. Le mollette di legno reggi panni, come avvolte in un bozzolo bianco, sarebbero riapparse a primavera: insieme alle farfalle. Quel dicembre la neve era gratis: lo diceva il Nerino, che di inverni ne aveva visti un po’. Arrivava senza economia.
Dentro casa, un tepore che sapeva di resina avvolgeva ogni cosa attorno al vecchio Franklin di terracotta rossa. Gli stavo davanti chiuso nell’abbraccio di un’ampia poltrona in cuoio scuro per gli anni, un’eredità. La fiamma, dentro la bocca annerita del caminetto, annodava i pensieri ad un torpore lieve: sollevava dalla realtà senza oscurarne gli occhi. Solo quel fagottino, poggiato sulle mie ginocchia, dormiva. Arrivato sul finire dell’estate sapeva del latte di Cristina.
Anche il telefono sembrava rassegnato a quella calma dolce e affettuosa. Era il giorno che seguiva il Natale: che il mondo si fosse spento come l’ultimo cero dell’Avvento?
Forse, ma per poco.
Squillo su squillo qualcuno, da un’altra parte dell’universo telefonico, entrò di prepotenza in quel momento di intima lentezza.
La Susy.
Dai tempi delle prime guardie mediche le sue tisane, al ritorno in Infermeria, sanavano le mie ansie figlie della notte e dell’inesperienza.
Era agitata. Lo zio, un solitario che stava su all’alpe dall’altra parte della valle, da più giorni “non faceva fumare il comignolo” della baita: per lo meno strano in pieno inverno.
Rimasi muto, in silenzio.
Uno di quei silenzi tattici, un po’ bastardi, che vogliono far sentire in colpa chi ti sta chiamando e vorrebbero dire tanto: … “e adesso che lo so?” – “oggi è Santo Stefano” – “perché non vai su tu a controllare?” – “sono qui col mio bambino” – “c’è la Guardia Medica”…
Lei, invece, parlò. Eccome se parlò.
Con ottanta centimetri di neve fresca – disse – sei tu l’unico medico che possa arrivare fin là.
Poi, lapidaria, aggiunse: non sei tu il medico del Soccorso Alpino …?
Era un tiratore scelto, sapeva come e dove colpire.
Non ci volle molto per ritrovarmi operativo col mio piccolo fuoristrada chiodato.
Sul sedilea fianco, lo zaino tattico. Addosso profumo di casa e d’amore. Sulla strada la lama era appena passata e, levata la neve più ingombrante, aveva lasciato quella patina compatta che i chiodi delle gomme sapevano addomesticare. Otto chilometri di valle in solitaria per poi cambiare mezzo di trasporto: bastoni da sci e ciaspole.
Il ponte sulla mulattiera sembrava ingioiellato: fronzoli di ghiaccio addobbavano le grosse corde d’acciaio. Un ponte di Natale.
La neve copriva i traversini, alta e immacolata. Galleggiavo. Senza i miei piedoni, invece, l’avrei avuta sopra le ginocchia. Il sentiero pareva scomparso, ingoiato da quella materia bianca che non voleva smettere di cadere. Conoscevo il percorso e andavo a occhio. Ritrovavo piante e tronchi famigliari: segnaposti immaginari per curve e gradini.
La pergola davanti alla casa comparve all’improvviso quando un campanile, sull’altro lato della montagna, mandò tre rintocchi, tra un fiocco e l’altro. A rispondere, il rumore del mio respiro segnato dalla fretta, nel timore di un ritorno scomodo: il buio era pronto a venire, chiamato da quel silenzio ingombrante. Intorno, niente che facesse pensare a qualche presenza, tutto pareva muto e spento.
Per la neve poggiata alla porta, mi convinsi che fosse chiusa da giorni, e l’idea di dare una voce non fu di grande aiuto: tutto, lì intorno, continuava a tacere. Mi mancava di provare ad aprire la porta. Esitavo. Il timore di sentirla resistere mi riportava a esperienze passate, tragiche. Bastò, però, che mi appoggiassi, sbilanciato dal cedere della neve sotto una ciaspola, che il battente di destra si aprì sul buio. Liberati i piedi, scesi in casa dall’alto gradino che la nevicata aveva fatto all’ingresso. Fu a quel punto che nell’oscurità un rauco “vegn avanti” mi invitava ad entrare, e aggiungeva “ver la finestra che chi l’é scür”.
Aperti gli scuri, il mondo tornò alla luce e due galline si fecero avanti a becchettare la punta dei miei scarponi. Nell’angolo fronte finestra, fra due trapunte giallo smunto e una berretta dell’Inter, spuntò l’Ermenegildo, o meglio, il suo naso. L’avevo trovato vivo, ed era già qualcosa. Sul vegeto era tutto da vedere. Bruciato dalla febbre, da qualche giorno non toccava cibo né acqua. La casa, gelida per il fuoco spento. Raccontò di una caduta, forse due settimane prima. Giorni di dolore al movimento, poi l’impossibilità a caricare la gamba sinistra, finché una mongolfiera rossa e bollente prese il posto del ginocchio. Brividi giorno e notte, senza, comunque, perdere la speranza che riposo e dieta acquietassero ogni male. Il cagnolotto sotto la branda, che fino a quel momento pareva imbalsamato, mi guardò di traverso quasi cogliesse la mia indecisione. In che storia mi ero cacciato? Cosa fare con ottanta centimetri di neve fresca, a due ore dalla provinciale, con logistica e meteo negativi per ogni velleità di elisoccorso? Chiamate un dottore…!!! fu il primo pensiero. Quello, ahimè, c’era, e aveva uno zaino pieno di ogni bendidio: tutto il meglio per verificare se, oltre a banfare sulle più fantasiose tecniche di soccorso, fosse anche dotato di capacità ed efficacia nell’intervenire.
Più che a un bivio capii di essere ad un incrocio quando il Gildo mi fece vedere il ginocchio destro: era anchilosato, bloccato. Se lo portava dai tempi della guerra, quando un maimorto glielo aveva scassato col calcio del fucile. Ragazzo e pastore all’alpe, si era opposto al sequestro di una manzetta.
A salvargli la gamba, diceva, era stato il dottor Pietro, medico capace e uomo generoso.
Ero con le spalle al muro: questa volta toccava a me salvare l’unico ginocchio sano rimastogli.
Decisi di drenare l’ascesso e per farlo cercai un contenitore dove raccogliere quanto stava nella sacca purulenta. Frugando tra le stoviglie nella piccola credenza mi si svelò tutta la solitudine che stava attorno a quell’uomo: un piatto, una fondina, una scodella, un bicchiere, un coltello, una forchetta, un cucchiaio e un mestolo di legno. Nemmeno l’idea di bere un goccio in due. La scodella, sbeccata di brutto, riportava in oro un oggi sposi, ormai consumato. Dopo averne riempite quasi due, impostata la terapia e fatto quanto richiedesse il caso, fuori si era fatta notte. Acceso il fuoco, una pastina con spaghetti rotti e un dado trovato sul fondo di un vaso vuoto di Nutella, fu il mio exploit culinario. Non c’era fretta, il buio ormai era arrivato.
Dopo aver trangugiato la mia brodaglia, chiese un sorso di vino indicandomi una minuscola botte, poggiata sulla cassapanca della legna, che pareva lì solo per bellezza.
Era trascorsa qualche ora e, mentre la confidenza andava via via crescendo, la febbre pareva finalmente diminuire. Dovevo rincasare e lasciare, a malincuore, un malato solo e in condizioni precarie. Fu comunque lui a rincuorarmi: non sono solo, disse, c’è il cane, ci sono le galline e … questo. Affondò il braccio dall’altro lato della branda e portò in bella vista un fucile a canne sovrapposte. Avevamo pareri discordanti sui potenziali nemici.
Qualche parola di saluto, senza tante cerimonie, e me ne andai. Il fascio di luce della frontalina mi guidò in una discesa piuttosto agevole: non nevicava più, il cielo era sereno e la temperatura, diminuita di molto, aveva indurito la neve che non cedeva al passo.
Era comparsa anche la luna e le ombre degli alberi mi fecero da scorta fino alla provinciale. Intanto immaginavo i profumi e il tepore affettuoso che mi aspettavano.
Per una settimana tornai su dall’Ermenegildo tutti i giorni. Poi, per fortuna, diradai i controlli. Diventammo amici e, nel tempo di tre settimane, festeggiammo il ginocchio tornato come nuovo.
Il Gildo riprese le sue occupazioni da eremita.
Io divenni il “dottor Carlo”, salvatore del suo ginocchio sinistro e uomo generoso.
Da quella volta, nella piccola credenza, il Gildo ha due bicchieri.
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