Diario di Bordo è la Newsletter periodica di Alternativa A… in cui è possibile approfondire e analizzare le tematiche relative all’associazionismo provinciale, le ultime notizie e le anteprime.
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Davvero l’impegno sociale è campo d’azione solo per volontari e professionisti del care giver?
Negroni – Grazie di essere qui.
Noi dobbiamo pagare un debito: l’ultimo numero della rivista era dedicato ai giovani, in tanti ne hanno scritto, ma nessun giovane. È ora di dar loro, cioè a voi seduti a questo tavolo, la parola. Abbiamo scelto di invitare voi, giovani professionisti che nel sociale lavorate con responsabilità progettuali e organizzative.
Zocchi – Abbiamo pensato a voi perché conosciamo le vostre capacità di progettazione, non siete semplici esecutori, ma ci piace sentire la voce di chi, giovane, poco ascoltato di solito, ha invece molto da dire. La prima domanda nasce probabilmente per deformazione professionale: quale formazione e quale progetto vi hanno portato a scegliere questo lavoro: conseguenza di una formazione o caso?
Rodari – Voler lavorare nel sociale era per me una mezza certezza, fin dalle superiori. Poi come si è declinato il mio lavoro è cambiato nel tempo, so per certo che questo non è il mio punto di arrivo. Per me è sempre stato un raccogliere e creare opportunità nel tempo.
Lunardon – Per me si può dire che sia stato un caso, a un certo punto ho “collegato i puntini”; la formazione scolastica ha certamente contribuito, ho studiato al liceo delle Scienze Umane, poi all’Università Comunicazione Interculturale, ma il collegamento con il lavoro e con il fare me l’ha dato un percorso in associazionismo: gruppo scout AGESCI, associazione giovanile 21 marzo, il coinvolgimento negli scambi giovanili come partecipante prima e poi come volontaria e così, quasi inconsapevolmente, ho costruito una rete. Quando poi ho deciso di cominciare a lavorare, sono arrivate le chiamate. Ero libera e pronta a lavorare in un settore in cui avevo fatto volontariato.
Dezuanni – Io ho una posizione un po’ particolare all’interno di questo focus: sono l’unico che non lavora in prima persona nel sociale, pur avendo costruito me stesso come persona in questo mondo e pur portando avanti ora, anche con ruolo di responsabilità a livello legale, attività in questo campo; di fatto però mi occupo a livello organizzativo di ricerca in un ambito che ha a che fare con acqua e cambiamenti climatici. In realtà anche per me questo potrebbe non essere un punto di arrivo, spero di riuscire in futuro a combinare questi due mondi: penso possa esser interessante pensare di partecipare a momenti di progettazione urbana che abbia a che fare con tematiche ambientali. Il mio percorso è partito con un coinvolgimento graduale nell’ambito dell’associazionismo, in gruppi guidati da adulti, fino a diventare sempre più parte attiva di un percorso.
Zanni – La mia risposta è in parte simile, quasi tutti abbiamo fatto percorsi nel mondo dell’associazionismo. Per me è sempre stato importante occuparmi del sociale. A un certo punto ho incontrato l’associazione 21 marzo. Nella mia formazione posso dire che contino due aspetti principali: in primo luogo io sono stata abituata per anni a fare qualcosa che ritenevo pieno di senso e di significato. Non concepirei il fatto di usare il mio tempo per attività non significative per il mio territorio e questo è un portato dell’associazionismo. Fare qualcosa che mi piace e in cui credo, anche a livello lavorativo, è una mia priorità.
Poi sono stati importanti le relazioni e i contatti: sapersi muovere in questi contesti dà una serie di competenze e contatti che diventano essenziali per creare reti, così si diventa risorse gli uni per gli altri in modo vicendevole. L’associazione mi ha insegnato a non concepire il ruolo lavorativo come qualcosa che ha una forma stabilita in cui ci si deve incastrare, ma lo interpreto come qualcosa che ti crei: la forma che dai al lavoro che svolgi è la tua forma, ognuno in associazione fa quello che gli riesce meglio e gli piace di più.
Bardi – Io a 9 anni volevo fare la criminologa, sicuramente c’era un progetto fin da piccola! Dopo una bellissima esperienza al liceo, ho vissuto un percorso fallimentare all’università, dove le mie aspirazioni sono state massacrate. Non sono arrivata a fare la criminologa, ma sono arrivata comunque a lavorare anche con e per i detenuti.
Ho fatto una esperienza significativa di volontariato in Nord Uganda, ma è stata l’unica esperienza di volontariato vero, solo 6 mesi e ha avuto forma molto intensa, ma non prevedeva le competenze che adesso mi ritrovo cercare nelle persone che lavorano con me.
La scuola che ho fatto preparava a quel tipo di approccio che necessita della capacità di lavorare in team, di saper usare problem solving e di tutte quelle competenze trasversali che con tanti anni di ritardo sono diventate più che riconosciute ora nel mondo del lavoro, ma già allora, al liceo, si lavorava duramente su quelle. Nonostante non abbia fatto esperienze nel mondo dell’associazionismo, credo che il mio percorso scolastico mi abbia fornito quelle competenze e credo che si sia formata e strutturata proprio lì quell’aspirazione a dotare di senso il mio lavoro di cui parlava Matilde. Dopo l’università e l’esperienza di volontariato, che pure mi ha dato molto, sono rientrata a Verbania e mi sono trovata a lavorare, come prima esperienza, nel primo Centro di accoglienza straordinaria aperto nel 2014 a Verbania, inizialmente come volontaria, poi mi hanno assunta. Ho iniziato a lavorare con i richiedenti asilo, avevo e ho ancora una forte passione per l’integrazione delle persone che stanno al margine: credo che l’inserimento lavorativo sia un aspetto assolutamente fondamentale per la loro integrazione, così ho conosciuto la Cooperativa “Divieto di sosta” che poi mi ha assunto. Da questo momento c’è stato per me un percorso di crescita, che molto aveva a che fare con quanto ero disposta a mettere di mio nei vari progetti, tanto che credo di avere plasmato alcuni progetti di quella cooperativa secondo i miei sogni e il mio modo di vedere. Era un modello “solitario”, quello della Divieto di sosta, cioè tendeva a lavorare, per quanto in rete, in maniera molto individualista, e anche su questo penso di aver portato un mio piccolo contributo. Direi che adesso, sia perché siamo entrati in una cooperativa più grande, “Il Sogno”, sia perché abbiamo agganciato diversi giovani che lavorano sul territorio, l’esperienza del lavoro di rete si è fortificata.
Negroni – A un certo momento vi siete inseriti: e lì, che cosa è successo? Avete incontrato qualche difficoltà? Qualche soddisfazione?
Rodari – Ho avuto grandi difficoltà nei lavori occasionali estivi, durante gli anni universitari, con una contrattualizzazione faticosa. Ora però il ruolo ce lo siamo ritagliato, avendo abitato Verbania da giovani attraverso la partecipazione ad associazioni, lo spazio si è creato quasi da sé: non si è trattato di uno spazio ricercato e combattuto per anni, il periodo più faticoso è stato quando lavoravo al Centro di Accoglienza Straordinaria di Verbania, prima con un impegno di volontariato, poi per sei mesi siamo state assunte, retribuite con un rimborso spese per il lavoro che facevamo.
Lunardon – Anche per me è stato difficile il periodo in cui lavoravo durante gli anni dell’università, si sopportavano condizioni di lavoro insoddisfacenti per avere uno stipendio per le piccole spese, ma contemporaneamente svolgevamo attività di volontariato. Una difficoltà che vivo oggi è che i miei genitori non capiscono il lavoro che faccio, viviamo uno scontro generazionale. Altre difficoltà in fondo sono legate a una scelta che ho fatto e al di là delle sfide che comporta, so che mi piace, nonostante la difficoltà di relazionarmi con gli adulti della mia famiglia.
Dezuanni – Mentre parlavate, pensavo ad alcune delle difficoltà che ho intuito in molti ragazzi che fanno parte dei nostri mondi: difficoltà nella distribuzione dei tempi e delle proprie volontà, soprattutto in un’età di passaggio che è quella del periodo appena dopo le superiori, quando è difficile trovare un equilibrio tra il percorso didattico scelto, che spesso richiede l’allontanamento dal territorio in cui si stavano mettendo fondamenta di ricerca del proprio ruolo, magari volontario, e la prosecuzione delle attività iniziate nelle varie associazioni. Se poi devi combinarle anche con un impegno lavorativo, diventa difficile dare abbastanza spazio a questi tre percorsi, e per molti è possibile salvarne solo uno o due, prendendo poi strade diverse, fuori da Verbania.
Interessante è però vedere queste esperienze nel lungo termine, in quanto molte persone che si sono create un percorso didattico e lavorativo lontano da Verbania, a un certo punto tornano. Ogni tanto ne parliamo, ci è molto cara questa dimensione del ritorno: molti di noi sono partiti da una città che inizialmente era vissuta come un polo di difficoltà per la ricerca di opportunità per noi giovani, per poi ritrovarci, magari dopo alcuni anni, ottenute queste opportunità altrove, a decidere di ritornare e di reinventarci nuove opportunità qua e non altrove.
Zanni – Riporto difficoltà che non ho vissuto direttamente, ma che so esistere. Io lavoro come progettista: fare progettazione significa anche ricercare, ottenere e gestire risorse, che spesso sono risorse umane. Chiediamo ad alcune persone di fare lavori, per esempio aprire presidi di supporto educativo per adolescenti, o lavorare in un ente che ha bisogno di investire in ambito di comunicazione. Il fatto che questo ambito sociale abbia bisogno di progettazione, lo rende da un lato molto bello, perché lo rende in costante cambiamento, ma lo rende anche estremamente instabile. C’è fatica per chi si aspetta di sapere se le risorse esistono o no, ci sono situazioni in cui non sai se l’attività che stai seguendo potrà proseguire nel mese successivo, non solo per te che lavori, ma anche per i beneficiari.
È una situazione bruttissima, sia dal punto di vista umano che da quello della sostenibilità economica. Nonostante la bellezza di quello che facciamo, ho intorno a me persone preoccupate costantemente dall’idea di non farcela dal punto di vista della stabilità. È un ambito che ha per questo aspetto caratteristiche di fondo che lo rendono non sano. Io ho subìto meno questa preoccupazione perché sono stata fortunata rispetto agli ambiti lavorativi che mi sono trovata a ricoprire, che hanno una caratteristica intrinseca di maggiore sostenibilità, meno legate a progetti specifici che poi finiscono, ma è una condizione che riguarda tanti.
La difficoltà che ho provato personalmente è facile da spiegare con un esempio: ho iniziato a lavorare per il Consorzio dei servizi sociali del Verbano, il 28 febbraio 2022 e la prima settimana di marzo è stata caratterizzata dall’arrivo di rifugiati ucraini, dopo l’invasione russa. Ho iniziato a lavorare in una situazione di emergenza, come spesso succede: ci troviamo a lavorare in condizioni che spesso hanno a che fare con i bisogni immediati delle persone e questo significa fare estremamente fatica a tutelare spazi personali. Dicevo prima che il mio è un lavoro bellissimo, ma allo stesso tempo sono consapevole del fatto che, dato che sei in quel ruolo e con quelle competenze, se sai che puoi contribuire a sostenere un bisogno, come fai a scegliere di non farlo? Sembra un discorso da “martire”, ma è una difficoltà oggettiva per chi lavora nel sociale, è molto difficile tornare alla dimensione individuale. Questa è la condizione del 90% delle persone che attorno a me lavorano nel sociale.
Bardi – Difficoltà ne vivo moltissime, non so da dove iniziare. Essere una giovane donna nel mondo del lavoro è molto difficile, comunque, ancora di più nel mondo del carcere, per le difficoltà legate al genere e alla mia giovane età.
Questa discriminazione è molto presente anche nel mondo della Cooperazione, la nostra non è una zona aperta, è ricca di iniziative pregevoli e innovative ma, a livello di mentalità, non è molto aperta, sta indietro di qualche decina di anni rispetto ad altre realtà cooperative in città un po’ più grandi. L’esperienza di guidare la fusione tra “Divieto di Sosta” e “Il Sogno” e trovarmi in ambito maschilista non è stata piacevole.
Riprendendo il tema della sostenibilità economica, io mi trovo a lavorare principalmente in progetti che fanno della propria capacità imprenditoriale il proprio pane quotidiano. La maggior parte dei nostri progetti affronta in qualche misura questa sfida di sostenibilità sul lungo periodo vendendo i propri prodotti e i propri servizi. Questo fa sì che si entri in competizione col mondo del mercato libero. E qui la pressione è davvero forte: devi raggiungere una qualità nel tuo lavoro e una capacità di saperla comunicare che dev’essere superiore alle aspettative del cliente medio, altrimenti diventa una sorta di beneficenza che si spegne in poco tempo. È necessario che ci sia affezione continuativa, c’è una pressione davvero forte perché sei in competizione con un mercato che non ha i limiti che hai tu; a volte ti trovi, ad esempio, a dover sostituire un collega malato con un altro collega carcerato, che ovviamente non può prendere il suo posto. I limiti del lavoro sociale che fa lavorare persone che hanno uno svantaggio come quello della reclusione pesano in termini di pressione psico-fisica su chi lavora in questo ambito e deve sopperire a queste emergenze.
Negroni – Facciamo un altro passo avanti. Una domanda un po’ più impegnativa. Fra tre anni, in quale ruolo lavorativo immaginate di potervi trovare?
Rodari – In realtà, per me è una domanda abbastanza semplice: non lo so, nel senso che non me la pongo perché non mi interessa. Da quando ho incominciato a lavorare, ho cambiato lavoro ogni tre anni. Per me, l’importante è non stare mai ferma; dopo un paio d’anni incomincio a sentire il bisogno di muovermi, però cosa verrà dopo non mi ha mai particolarmente preoccupata, l’importante è trovare sempre soluzioni che mi facciano stare bene, mi facciano crescere, imparare cose nuove e che mi mettano fuori dalla mia zona di confort.
Lunardon – Faccio fatica a rispondere, forse è la parola ruolo che mi disorienta, perché mi pare di avere più ruoli, più posizioni. Preferisco dire come mi immagino fra tre anni. Spero di essere più centrata: per riuscire ad avere un’autonomia devo comporre dei pezzi, avere un posizionamento che derivi da una cosa sola. A volte invidio quelle amiche che hanno fatto infermieristica e quello è il loro lavoro e lì sono centrate. Per me, da questo punto di vista, è caos più totale, mi sembra di essere scomposta in diversi ruoli, tanti pezzi, come un puzzle, e il mio obiettivo è riuscire ad essere un solo pezzo, anche se sfaccettato all’interno. Non conta tanto la posizione, conta avere una mia integrità. Tornando al problema delle difficoltà, mi accorgo che oggi la mia vera difficoltà è proprio questa.
Zocchi – Aiutami a capire: è una difficoltà tua personale o del tipo di lavoro che oggi fai?
Lunardon – Attualmente faccio tre lavori, che hanno all’interno tanti progetti diversi. Lavorare nel sociale è bello, ma questa che io vivo è una condizione tutt’altro che infrequente.
Dezuanni – Tre anni sono tanti, se guardo tre anni indietro mi sembra un abisso. Tre anni fa ero in piena pandemia, in crisi totale in un contesto associativo che cercava di superare le difficoltà di doversi connettere a distanza e non sapevo assolutamente quale sarebbe stata la mia strada; ora mi sembra passato tantissimo da quei momenti. Tre anni passeranno in fretta ma succederanno anche tante cose nel frattempo. Ciò che mi immagino e mi auguro è di raggiungere una dimensione che avrò voluto crearmi, che possa combinare il mio percorso formativo e occupazionale con il sociale. Non so se questo avverrà, non ho paura delle difficoltà, ma ho bisogno di verificare se davvero sia possibile tenere insieme questi due mondi.
Zanni – Sono un po’ a disagio perché mi sembra di essere in una situazione diversa da quella degli altri: io ho sempre avuto chiaro il percorso, mi sembra un privilegio che le persone intorno a questo tavolo non hanno avuto e questo mi fa sentire in difetto rispetto agli altri, perché io mi immagino a fare cose molto belle fra tre anni, non so esattamente quali, però ho molta fiducia nel contesto che si sta creando a livello territoriale, nelle mie competenze, nel modo in cui mi si sta dando la libertà di sperimentarle. Sono molto ambiziosa, sento molto il senso di responsabilità e fra tre anni mi aspetto di essere in ruoli interessanti.
Bardi – Io sono la più vecchia tra questi giovani e, sinceramente, mi aspetterei tra tre anni di essere un po’ meno in trincea, ma non so se ne sarò capace. L’ambito gestionale, che già pratico, nelle cooperative è cosa diversa da ciò che avviene negli enti; nell’ambito cooperativo in cui lavoro non vedo grandi possibilità di miglioramento rispetto all’oggi, perché al di sopra della mia c’è solo la posizione di direttore amministrativo che non coprirò entro i prossimi tre anni e forse non vorrò mai ricoprire. Anch’io vorrei poter trovare quelle risorse umane tanto difficili da trovare che possano assumere una parte delle responsabilità che per ora copro io, che sono troppe e che non riesco a coprire come vorrei. Insomma, poter lavorare in staff in modo da non sentirsi sempre in trincea. Si, lo so…, è una risposta da vecchi.
Zocchi – Sentendo le vostre risposte, penso di poter dire, innanzi tutto, che questo territorio, dal punto di vista associazionistico, ha un panorama molto ampio, molto ricco e vitale. Non so se nelle grandi città sia altrettanto facile costruire reti, da questo punto di vista noi siamo favoriti. D’altra parte, come diceva Paolo, la frequenza universitaria allontana dal territorio i giovani, con la difficoltà conseguente di mantenere attivo questo tessuto, queste reti e a mantenere anche il desiderio di tornare in questo territorio. Secondo voi, i giovani come vedono il nostro territorio, in relazione alle offerte che vi ha dato nel passato e che nei prossimi tre anni vi potrà dare?
Negroni – Notate che questo tema del territorio ricorre? In un modo o nell’altro continua a ritornare. È interessante, perché in prima battuta si dice sempre: sì, vivere qui è bello, ma poi cosa offre? Però, comunque ritorna. Cos’è? Solo il richiamo della foresta o c’è qualcos’altro?
Zanni – Questo tema è interessante, perché quello che caratterizza le nostre esperienze lavorative è anche che si stanno svolgendo qui. Io ho iniziato la mia attività lavorativa in una società di consulenza di Milano, esperienza che ho deciso di concludere perché desideravo tornare qua. La ragione è che là io ero una persona e una lavoratrice come altre, mentre lavorare qui si connette a ciò che già io qui sono, la dimensione lavorativa si va a unire a quelli che sono i percorsi di vita, ai gruppi di persone, alle reti relazionali. Qui mi sento sì una singola persona, ma all’interno di una rete molto salda; il ruolo lavorativo diventa un modo per attivare quella rete, diventa una sorta di tramite, da questo punto di vista si è molto generativi, che è una sensazione che a Milano non provavo, perché non si andava oltre la dimensione tecnico-operativa del lavoro. Qui c’è un contesto di rete intorno a me, con cui sono in contatto e di cui sono attivatrice che genera moltissimo in termini lavorativi. La sensazione è che questa cosa stia funzionando molto bene in questo territorio e soprattutto in ambito sociale. L’altra percezione che ho, grazie ad alcune esperienze, è il basso grado di competizione e il prevalere della collaborazione; anche in enti diversi facendo lo stesso percorso, le dinamiche che si creano sono di tipo collaborativo, di potenziamento reciproco; non devo dimostrare di essere la migliore in questo ambito per fare carriera, ci si aiuta molto e ciò avviene soprattutto tra i giovani lavoratori e penso sia dovuto a un senso di fiducia nel contesto territoriale che abitiamo.
Lunardon – Forse è il periodo storico in cui siamo, la pandemia ha avuto un prima e ha un dopo, che si riflette positivamente sui giovani e sul lavoro in questa provincia. Si sono create nuove posizioni grazie a fondi di bandi in ambito sociale recentemente usciti, a cui si è partecipato, posizioni che hanno generato nuove figure professionali ora all’opera. Una cosa importante in questo dopo pandemia è che Verbania è diventata attraente per molte persone, le bellezze naturali, la vicinanza alle persone care l’ha fatta diventare un polo sicuro a cui poter tornare; si è rivelato anche un posto sicuro in cui lavorare, rimane il problema che non per tutti lo è fin d’ora. Sono attivi progetti occupazionali per disoccupati, ma molti sono laureati che qui non possono lavorare. Nel campo della ristorazione sono i datori di lavoro che ti vengono a cercare, ma in molti altri settori non ci sono possibilità. È bellissimo che Paolo possa fare ricerca scientifica a Verbania, però tra i laureati in materie scientifiche lui rappresenta un’eccezione.
Dezuanni – Ho trovato questa domanda più complicata di quanto mi aspettassi, perché c’è sempre l’altra faccia della moneta: una impellente e introiettata fin dalle superiori necessità di doversene andare e, l’altra faccia della moneta, quella fortissima affezione al territorio e non solo per chi decide di lavorarci o fa parte dei circuiti del sociale o dell’associazionismo, è qualcosa che si sta strutturando e consolidando anche di recente. Le reti che nascono creano una base molto solida. Io sono stato incredibilmente fortunato, anche perché è vero che Verbania non è il primo polo a cui si pensa in tema di ricerca scientifica, ma nell’ambito degli studi ambientali e, in particolare, delle acque, l’ex Istituto Idrobiologico (oggi IRSA-CNR) è uno dei poli di maggiore importanza e poter studiare le acque su queste montagne e in questo lago è una delle più incredibili opportunità che potevano capitarmi. E comunque è fondamentale questa centralità del legame territoriale, anche come potenziale di una sua migliore capacità di accoglienza.
Negroni – Voi siete utili non solo laddove vi date da fare, dove lavorate, ma anche a noi che facciamo questa rivista. Mi spiego: la mèta che ci siamo dati imbarcandoci in questa impresa è riuscire ad essere utili a chi lavora nel sociale, soprattutto aiutando a colmare una fondamentale ma spesso trascurata competenza: la conoscenza e la comprensione degli ambienti, degli scenari, dei contesti, a partire proprio da quel territorio di cui abbiamo fin qui parlato, in cui il lavoro sociale si svolge. Abbiamo però bisogno di avere dei riscontri del nostro impegno, capire cosa va bene, cosa non va bene, cosa manca. Se credete che questo nostro lavoro abbia un senso, aiutateci a metterlo e a tenerlo sulla strada giusta, dandoci frequenti feedback: segnalazioni, opinioni, valutazioni. Ciò che chiediamo a voi e ad altri è una forma di collaborazione leggera, ma non meno importante di quella di chi queste pagine riempie.
Zanni – Grazie per questo invito, perché già nei mesi passati, vedendo che organizzavate dei Forum e dei Focus ai quali invitavate a parlare molte persone, notavo che soltanto una volta era stata chiamata una giovane, Sabrina, ma i giovani attivi nel sociale non sono pochi e hanno anche loro voce, hanno cose da dire. Quindi, benissimo questa richiesta di collaborazione che sarò felice di dare; sarà una visione personale, che riflette condizioni e posizioni parziali, ma penso comunque utili.
Negroni – C’è spazio ancora per una domanda conclusiva: chi e come può facilitare il vostro inserimento a pieno titolo, con successo, nel mondo del lavoro? Chi? Cosa? Come? Cosa manca?
Zanni – La prima condizione è che chi già si trova in posizioni di responsabilità, a livelli superiori, si impegni a lasciare spazio, non di lasciare il posto ma di creare spazi di crescita per i giovani, che significa accettare visioni diverse, perché diversi sono spesso i nuovi approcci, le competenze e le tecniche che richiedono la messa in dubbio da parte di chi quel lavoro lo fa da anni. Che nulla toglie alla necessaria collaborazione intergenerazionale, perché, da parte nostra, resta comunque la consapevolezza che chi quel lavoro lo fa da tempo ha certamente cose da insegnarci. Io, in questo, sono stata fortunata, ma questa disponibilità a lasciare spazio non sempre c’è. La seconda condizione è che occorre che le università formino progettisti per i servizi sociali e culturali; siamo pochi, si perdono occasioni di finanziamento, risorse da gestire, occasioni di sviluppo. Questo tema è sempre più importante anche nelle amministrazioni pubbliche, ma abbiamo poche persone formate per affrontarlo e mancano percorsi di studio specifici.
Lunardon – Ci sono dei master, io ne ho fatto uno, ma quelli fatti da accademici offrono teoria ma non esperienze formative.
Zanni – La mia università, da questo punto di vista, è stata meravigliosa, però mancava tutta la parte di progettazione e mi sono salvata perché nel frattempo ho lavorato per una progettista compensando la parte pratica mentre seguivo Politiche Pubbliche.
Rodari – Sono d’accordo con Matilde, aggiungerei la necessità di fare una mappatura delle risorse e delle possibilità disponibili, perché quando ci sono posti aperti non è possibile chiamare qui persone idonee che potrebbero essere interessate; poi, come detto sempre da Matilde, la valorizzazione del nostro lavoro, delle nostre competenze, delle risorse, della rete; anche della tangibilità di quello che stiamo facendo: ritrovi dopo dieci anni persone che hai aiutato e le scopri inserite, ricongiunte alla famiglia, poi ci sono anche storie che non sono andate bene, ma verificare i successi aiuta ad andare avanti e mantenere viva anche la carica ideale da riversare nel territorio e in altre storie.
Bardi – L’università potrebbe essere una chiave: ciò che sta facendo l’amministrazione comunale con Villa San Remigio mediante una convenzione con l’Università del Piemonte Orientale per portare qui iniziative e convegni di vario genere. Fra l’altro UNPO ha un corso di laurea riguardante le politiche pubbliche, che mi pare interessante. L’università potrebbe essere un tramite per portare qui persone che poi potrebbero rimanere per tutto ciò che di buono questo territorio offre, ma anche per rimpolpare questo nostro giro di giovani che lavorano nel sociale; perché saremo giovani, attivi e brillanti, ma ci conosciamo tutti, siamo pochi, quindi, le nostre attività soffrono questo limite. Se penso che sono io che gestisco il progetto di economia sociale più bello della zona, “Gattabuia”, quasi mi vergogno, perché ha ragione Matilde quando dice che l’assenza di competitività fra noi è un valore, ma se apporti esterni ne producessero almeno un poco, forse male non sarebbe. Nelle grandi città ci sono enti del terzo settore capaci di gestire decine di progetti di questo calibro; qui queste eccellenze da cui imparare non ci sono e questo è triste perché limita il potenziale di crescita. Una visione di lungo periodo, non del terzo settore ma delle pubbliche amministrazioni locali, puntando su una forte alleanza con l’università, in particolare UNPO, potrebbe creare, nel tempo, condizioni di sviluppo complessivo delle aree culturale e sociale del territorio, mantenendo e richiamando in loco giovani, mentre oggi si rischia, al contrario, di perdere quanto di meglio abbiamo. Verbania potrebbe, magari fra vent’anni, diventare una “città del sociale”, valorizzando potenziali che già ha, riguardanti soprattutto la sua vivibilità. In conclusione, credo che alla domanda posta si possa e si debba rispondere, ma non guardandoci negli occhi tra noi, perché dipende da una visione complessiva di città che non tocca a noi pianificare.
Negroni – Bene, mi pare anche una giusta prospettiva. Quindi, se non c’è altro da aggiungere, possiamo concludere. Grazie a tutti.
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