Magazine Alternativa A Numero 3
Anno 2023
Giovani e futuro: aspettative e incubi
13 Marzo 2024

Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare?

Qualche tempo fa, così esordiva Umberto Galimberti nel primo di alcuni  libri dedicati al tema della condizione giovanile: “I giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il ‘nichilismo’, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui; (è) la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa[1].

Nel riaffiorare di quel sostantivo virgolettato, tanto evocativo e carico di storia, “nichilismo”, sta il richiamo alla gravità di un fenomeno radicato nella nostra società che è necessario provare a comprendere, perché “l’individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, se non addirittura di sensi e di legami affettivi” [2]. E il problema che ne sta alla base non riguarda soltanto le giovani generazioni; la crescente difficoltà a percepire con fiducia il futuro è un fenomeno collettivo, corale, che investe la società nel suo complesso.

Abbiamo perso il futuro – scrivevo un paio d’anni fa su queste pagine – È avvenuto lentamente, neppure ce ne siamo accorti. Abbiamo smesso di pensare al domani come al tempo in cui si potrà vivere meglio. Abbiamo smesso di pensare al futuro come territorio del desiderio e della speranza; anzi, inavvertitamente ma sempre più, il domani si è fatto incerto, allarmante, angosciante, temibile. Non è stato un abbaglio collettivo; gli ultimi decenni hanno offerto abbondante materiale utile a maturare incertezza e paura per il tempo che deve venire, per perdere fiducia nel domani[3]. Drammaticamente per tutti, tragicamente per chi è più giovane e proietta naturalmente in avanti aspettative e speranze e più degli altri ne viene defraudato, perché, come avverte Galimberti, il futuro si è trasformato da promessa in minaccia: “la mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell’assoluto presente[4] e la minaccia non è certo un buon viatico per andare verso il domani: induce paura, chiusura, isolamento, sordo individualismo.

Intendiamoci, all’idea di un futuro tutto roseo, quello delle sorti magnifiche e progressive, nessuno di buon senso ha mai creduto. Anche nel quarto di secolo post-bellico, della ricostruzione, dell’espansione economica e del benessere, quando l’ottimismo e la fiducia nel futuro avevano tutte le ragioni d’essere, una qualche cautela e un po’ di timore non mancavano e anche per i più spericolati c’era pur sempre l’ala nera della proliferazione nucleare a mitigare gli entusiasmi; poi, già nei primi anni Settanta suonavano i primi campanelli d’allarme[5].

La ricerca del Censis “Generazione Post Pandemia”, pubblicata un anno fa, rilevava che fra i giovani prevalgono incertezza (49%) e ansia (30%), ma anche paura (15%) e pessimismo (13%). Il 45% di loro preferiva passare a casa più tempo possibile, il 47% diceva di sentirsi fragile, il 32% di sentirsi solo. Soffrivano di ansia e depressione dopo il Covid il 49% degli under 25. Il 69% non si sentiva rappresentato dalla politica. Il 77% riteneva che difficilmente un giovane vedrà riconosciuti l’investimento e le energie spesi nel lavoro e nello studio.

Che le giovani generazioni siano più esposte delle altre alle ricadute negative della perdita di visione positiva del futuro, della percezione della sostenibilità della sfida è comprensibile, perché sono quelle che più dovranno farci i conti; ma che ciò giunga fino a spalancare le porte all’ospite inquietante, a un diffuso nichilismo lo è un po’ meno. Spiega Galimberti: “se l’uomo (…) è un essere volto alla costruzione di senso, nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde, il disagio non è più psicologico, ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime”[6].

Grandi sono le responsabilità di una società che, oltre alle molteplici ragioni di inquietudine che riversa sull’insieme della popolazione, riserva alle giovani generazioni un abbondante supplemento. In primo luogo, oggi i giovani sono pochi, la loro voce è flebile; limitiamoci a un esempio di casa nostra: la fascia 15-29 anni del VCO costituiva nel 1971 il 20,20% della popolazione, nel gennaio di quest’anno il 13,72%; pochi per farsi sentire, pochi per incidere sui mercati e i centri di potere che contano[7]; siamo a siderale distanza dai tempi delle rumorose moltitudini di giovani boomer.

In secondo luogo, oggi molti giovani si trovano in condizioni di deprivazione. Il Rapporto Annuale dell’ISTAT 2023, reso pubblico a luglio, individua cinque fattori decisivi per il benessere giovanile: “Istruzione e Lavoro, dove si valuta la partecipazione al mercato del lavoro e a percorsi educativi; Coesione sociale, dove si tiene conto della partecipazione sociale e politica e della fiducia nelle istituzioni; Salute, in cui si considerano la salute fisica e mentale e gli stili di vita; Benessere soggettivo, nel quale si valutano diversi aspetti della soddisfazione personale; Territorio, nel quale rientrano la soddisfazione per il contesto paesaggistico e ambientale in cui si vive e la difficoltà a raggiungere i servizi essenziali” . I risultati inquietano.

Il 47,1% dei giovani 18-34enni presenta segnali di deprivazione in almeno uno dei cinque fattori indicati; le quote maggiori di deprivazione riguardano le aree Istruzione e Lavoro (20,3%), Coesione Sociale (18,2%) e Territorio (14%); seguono Salute (9,4%) e Benessere Soggettivo (6,8%). La fascia di età in maggiore difficoltà è il segmento 25-34 anni, mentre quello che ha risentito maggiormente della fase Covid è il segmento 18-24 anni. Nel corso del 2022, il 15,5% dei 18-34enni risulta multi-deprivato (due o più aree); anche qui è la componente più anziana 25-34 anni in maggiore difficoltà (17,2% contro 12,9% dei 18-24enni). Più accentuata è la multi-deprivazione nel Meridione (19,5%, contro il 13,7% del Nord e il 12,3% del Centro). Le differenze di genere appaiono però trascurabili. Rispetto al 2019 i multi-deprivati sono diminuiti (erano il 17,5%), malgrado l’aumento registrato nel 2021 (18,25) in piena fase Covid. La quota dei giovani in cerca di lavoro da almeno 12 mesi (8,8%) è tripla di quella comunitaria. Ancora, la quota di partecipazione al lavoro dei giovani (15-29 anni) è il 33,8%, il 15% in meno della media europea; quella degli studenti lavoratori è del 6% a fronte di una media europea del 16,7%[8].

Decisamente elevata è la quota dei Neet (Not in employment, education or training), giovani di età 15-29 anni fuori da percorsi di studio, di lavoro o di formazione, che sfiora il 20%, supera di oltre 7 punti il valore medio europeo e risulta penultimo tra i 27 membri dell’Unione. Un valore prossimo al tasso di disoccupazione giovanile (18%), anch’esso superiore di quasi 7 punti alla media europea. La condizione Neet femminile supera quella maschile (20,5% contro 17,7%); tra i giovani 25-29 anni un quarto è Neet, con punte al Meridione di 27,9%; nel Nord-est sono il 12,5%, nel Nord-ovest il 14,2%, al Centro il 15,3%, in Sicilia è Neet quasi un terzo dei 15-29enni.

I Neet comprendono non solo chi rinuncia a lavorare e studiare, ma anche chi è in cerca di lavoro e chi è impossibilitato temporaneamente a farlo. Circa un terzo è disoccupato, nella metà dei casi da almeno 12 mesi (62,5% al Sud, 39,5% al Nord). Quasi il 38% “non cerca lavoro né è disponibile a lavorare immediatamente. Quest’ultimo gruppo si divide in proporzioni simili tra chi è in attesa di intraprendere un percorso formativo (il 47,5 per cento tra i ragazzi), chi dichiara motivi di cura dei figli o di altri familiari non autosufficienti (il 46,2 per cento tra le ragazze) e chi indica problemi di salute”. Il 76,5% dei Neet vive nella famiglia d’origine e solo il 33,7% ha avuto precedenti esperienze di lavoro. Circa 20% è diplomato o ha la licenza media, il 14% è laureato.

Nel 2010 emigravano circa 3,2 maschi e 1,9 femmine di 25-34 anni ogni mille laureati; nel 2021 i rapporti sono saliti rispettivamente a 9,5 e 6,7, in un decennio sono, cioè, triplicati[9].

Mettiamo un argine a questa alluvione di numeri, ma così succede quando per documentare quanto si va dicendo è necessario rivolgersi a fonti statistiche. Vi è, però, almeno un terzo sovraccarico che aggrava quell’abbondante supplemento di motivi d’inquietudine, di cui si diceva, che la società odierna riserva alle giovani generazioni. Il passaggio dalla fase adolescenziale a quella adulta ha sempre costituito, in tutte le società, uno snodo critico, spesso enfatizzato ritualmente: il superamento di una condizione protetta di minorità per una adulta di responsabile autonomia. Un passaggio cui a lungo ci si prepara, accuratamente, con impegno, con fatica, che nelle nostre società coincide, prosaicamente, con la conclusione degli studi e l’ingresso nel mondo del lavoro. Una fase dell’esistenza in ogni caso carico di aspettative, di timori e di ansie, divenuto in questo tempo storico e in questo Paese, come evidenziano i dati sopra esposti, sempre più problematico, incerto, prostrante, logorante.

Qualche mese fa, durante la cerimonia d’apertura dell’anno accademico dell’Università di Padova, la Presidente del Consiglio delle Studentesse e degli Studenti Emma Ruzzon ha scosso la platea con una accorata denuncia delle gravi condizioni di disagio che il sistema universitario impone agli studenti. Dopo una breve introduzione in cui ha alternato la citazione di alcune magnificazioni mediatiche di record scolastici con notizie di suicidi di studenti, ecco un puzzle di frammenti di quel discorso. “Il numero dei suicidi è in crescita, siamo stanchi di piangere i nostri compagni. Siamo sottoposti ad aspettative asfissianti… Occorre il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema merito-centrico e competitivo. Da quando studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare?…

Il mancato raggiungimento di un risultato è da attribuirsi soltanto alla colpa del singolo di non essersi impegnato abbastanza, ma molti degli ostacoli che incontriamo sono strutturali: una politica della residenzialità studentesca inesistente, non disporre di risorse per affittare una casa, non poter frequentare le lezioni, migliaia di borse di studio riconosciute ma non erogate… Quella abitativa come quella economica sono emergenze. Non è rispettato il diritto costituzionale di poter studiare… È ‘codardo’ che si affidi al singolo studente di trovare il modo di arrivare alla fine del percorso indenne, superando ostacoli che è compito delle istituzioni rimuovere, e ciò pure in assenza o grave insufficienza di supporto psicologico a fronte della costante pressione competitiva cui siamo sottoposti in una fase già critica dell’età… Stare male non deve essere normale, ma in questo contesto di precarietà ci vien richiesto pure di eccellere”…

Nel 2022, nel corso della celebrazione degli 800 anni dell’università di Padova, alla presenza del Presidente della Repubblica, l’intervento di Emma Ruzzon era stato dello stesso segno. “Solo il 29% della popolazione giovanile riesce a laurearsi, penultimi in Europa… Ci viene insegnato che studiamo per poter lavorare, e non per accrescere la nostra cultura, per poi ritrovarci in un mondo del lavoro che ci chiede di ringraziare per l’opportunità di essere sfruttati, perché è così che si fa esperienza… Ci dicono che le opportunità ci sono, che è il merito quello che conta; sono desolata, ma temo sia un’affermazione che non trova riscontro nella realtà”…[10]

Quanto fin qui esposto non è certo esauriente per motivare la presenza tra le giovani generazioni dell’ospite inquietante di Galimberti, altro sicuramente concorre. Andrebbero, ad esempio, attentamente considerati quei fenomeni e quei processi responsabili, nell’ultimo trentennio, dello sgretolamento dei tessuti connettivi del Paese, quei fattori involutivi che ne hanno rallentato, bloccato, quando non invertito, il cammino. Ma anche ciò non sarebbe sufficiente, perché non tutti i danni prodotti e arrecati sono da iscrivere a nostro esclusivo merito: tanta è la parte derivata da dinamiche e processi che sovrastano l’angusta dimensione nazionale (evoluzione tecnologica, globalizzazione, cambiamenti climatici, guerre, ecc.). Ma questa è un’altra storia, che richiede ben altro che un paio di paginette anche solo per essere delineata. Accontentiamoci, perciò, di questi pochi spunti, con una piccola chiosa finale.

Il libro di Galimberti merita di essere letto tutto, non solo sbocconcellato come fatto qui nelle prime righe, anche perché, dopo aver vagliato a fondo il problema, vi si prospetta una via d’uscita: “È come se lo sguardo senile della cultura occidentale non avesse più occhi per la condizione giovanile che potrebbe portare un rinnovamento, e perciò la lascia ai margini del proprio incedere, parcheggiata in spazi vuoti e privi di prospettive”. “Forse un modo per oltrepassare il nichilismo, almeno nelle sue catastrofiche ricadute giovanili, è quello di risvegliare e consentire ai giovani di dischiudere il loro segreto, spesso a loro stessi ignoto (…)”[11]. Un potenziale da scoprire.


[1] Umberto Galimberti, L’ospite inquietante (il nichilismo e i giovani), Feltrinelli, Milano, 2007, p. 5.

[2] Ibidem, p. 6.

[3] Ma la perdita di fiducia nel futuro non è fenomeno solo di oggi. Verso la fine del XVI secolo scriveva Montaigne: “Coloro che accusano gli uomini di andare anelando sempre alle cose future, e ci insegnano ad impossessarci dei beni presenti e riposarci su di essi, perché non abbiamo alcun potere sulle cose a venire, anzi ancor meno di quanto ne abbiamo sulle cose passate, toccano il più comune degli errori umani” in Michel de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano, 2014, p. 13.

[4] Galimberti, cit., p. 20.

[5] Ricordiamone due tra i più famosi. Nel 1972 veniva pubblicato in Italia I limiti dello sviluppo, una ricerca commissionata dal Club di Roma al M.I.T. di Boston (quattro edizioni nel solo primo anno) edito dalle Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori, il cui titolo già era un pugno nello stomaco con quell’accostamento inusitato di due sostantivi che apparivano inconciliabili: limiti allo sviluppo? quando mai? ebbene, si: in poco più di 150 pagine si dimostrava che la crescita economica e lo sviluppo mondiale non avrebbero potuto mantenere trend sempre positivi. Il secondo caso, ancora più famoso, è dell’anno dopo, il 1973, ed era la prima conferma delle previsioni dell’anno prima: lo shock petrolifero, quello delle domeniche senza auto, la crisi che per la prima volta impose limitazioni al consumo energetico.

[6] Galimberti, cit., p. 7.

[7] Nello stesso periodo, la fascia 65 anni e più è passata dal 12,75% al 28,06%. Elaborazioni su dati ISTAT.

[8] Rapporto Annuale ISTAT 2023, pp. 43-47.

[9] Rapporto Annuale ISTAT 2023, pp. 100-102.

[10] In questi tre ultimi capoversi sono assemblati, con qualche libertà formale, spezzoni dei due discorsi.

[11] Galimberti, cit., pp. 146 e seg. Su questa questione, si può trarre giovamento anche dalla lettura di Sabino Cassese, Una volta il futuro era migliore (Lezioni per invertire la rotta), I Solferini, Milano, 2021.

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