Provo a riprendere il discorso dal numero precedente di Alternativa A sull’identità del “nostro” territorio. Iniziavo così:
«Il termine “identità”, nella sua accezione socio-antropologica (appartenenza consapevole ad una comunità) va trattato con una buona dose di cautela. Sia perché, come sottolineava Annibale Salsa[1] oltre tre lustri addietro, le identità tradizionali hanno subito i processi di trasformazione economica e omologazione comportamentale regredendo a fenomeni quali la folklorizzazione e un esasperato localismo, sia perché il richiamo alla “purezza” di presunte identità etniche rappresenta oggi la nuova frontiera del razzismo[2] che dietro alle parole “etnia” (e “cultura”) ripropone i vecchi miti della razza da difendere contro le presunte contaminazioni (es. “sostituzione etnica”)».
Quanto la ricerca di una “purezza originaria” su cui basare la propria identità sia infondata ce lo spiega il filologo Maurizio Bettini in un suo recente libro[3] e come questa sia volta a costruire una separazione (un confine) verso i presunti “nuovi barbari” portatori di disordine in un (immaginato) ordine tradizionale. Identità e sovranismo possono così dar vita ad un vero e proprio furore che non teme il ridicolo.
“Tempo fa a Bologna il Comitato per le celebrazioni della festa di San Petronio ha deciso di offrire alla popolazione dei tortellini fatti col pollo, anziché con la carne di maiale, per permettere anche ai musulmani di gustarne. La cosa ha fatto scandalo. «Io sono un bolognese doc, per cui per me i tortellini sono l’identità», ha reagito con vigore un noto uomo politico. Per poi aggiungere che il tortellino ripieno di pollo (e non di maiale) «sarebbe il tradimento della propria identità culinaria, che è una cosa importante». Altre vigorose difese del tortellino identitario non sono mancate, in sintonia con un sovranismo alimentare che ha notoriamente i suoi baldi difensori.”
Bettini a commento del presunto “adulterio del tortellino” riproduce un testo culinario dell’Ottocento[4], “sfuggito ai gelosi custodi della tradizione”, poi ripreso dal più noto Talismano della felicità, sulla “Zuppa ai Tortellini alla Bolognese” da preparare con il trito di petto di pollo arrosto …“con tanti saluti alla «purezza» culinaria”. Transeat.
Non cito altri esempi forniti da Bettini che di seguito affronta il tema della “crisi di Identità” rifacendosi a Erik Erikson che negli anni ’60 del secolo scorso ne aveva introdotto il concetto in riferimento alle minoranze statunitensi, “vittime di una ‘identità negativa’ che viene loro affibbiata dagli stereotipi della maggioranza” sostenendo invece “il diritto di neri, donne, omosessuali a manifestare una propria «identità culturale».
Ben diversa, per certi versi paradossale, sottolinea Bettini, è invece la situazione attuale.
“Adesso infatti a sentirsi minacciate sono le maggioranze che temono una ‘crisi’ della propria identità culturale (maggioritaria) a motivo della presenza di minoranze culturali presenti nel territorio.”
Tale è la diffusione di questo fanatico furore di sovranismo identitario che l’autore ritiene improponibili “identità non «esclusive» ma «inclusive» proponendo, invece del concetto di identità (e della sua crisi), il concetto di «cultura» in quanto frutto di costanti innovazioni e interpolazioni, non esclusi periodi di crisi, di disordine quali premesse per un creativo successivo ordine. La metafora richiamata è quella dell’anagramma che richiede una fase di disordine, di rimescolamento per dar vita ad un nuovo e inaspettato ordine “come accade allorché un rustico «saio» si tramuta in una refrigerante «oasi», lo stile «romanico» si fa gradevolmente «armonico», mentre dalla porta di una «gendarmeria» se ne esce, maestosa, una «regina madre»[5].
Anche se questa analisi critica dello “spirito del tempo” è senz’altro efficace, le sue indicazioni non mi paiono utili per rispondere alle domande sulla identità di questa provincia frammentata.
Più illuminante mi è parso invece un ben diverso approccio, quello della psicologia dinamica di Giovanni Jervis: in un testo di qualche anno fa[6] per affrontare il tema della crisi (e della perdita) dell’identità non si rifà alla psicologia sociale di Erikson ma all’antropologia di Ernesto de Martino.
«Il pensiero demartiniano ruota intorno all’idea dell’identità soggettiva, come sentimento dell’esserci in quanto “esserci in un certo modo”; il che significa, in pratica, “esserci come persone dotate di senso in un contesto dotato di senso“. Egli chiama questo sentimento presenza; e si occupa di studiare i meccanismi sociali (e in particolare i meccanismi rituali) con cui le comunità e gli individui si difendono da un rischio esistenziale primario, e universale, che chiama perdita della presenza. … L’idea, centrale in tutto il suo pensiero, della crisi della presenza, non è diversa dall’idea del “sentire in rischio” la propria identità. Egli ne sosteneva il carattere pervasivo, e dunque universale. Ne è un aspetto “l’angoscia territoriale“, di cui De Martino faceva spesso menzione: cioè l’angoscia di chi perde, o teme di perdere, i riferimenti a quei luoghi domestici dove sente di avere un senso.»
Ecco, mi pare che per affrontare il tema della nostra “identità territoriale” possiamo partire da qui, dalla “presenza”, dalla costruzione (conquista per Jervis) di un esserci consapevole in un contesto dotato di senso partendo dalla constatazione che nel nostro caso più che di una “perdita” siamo di fronte a una evidente “assenza”. Un territorio che non sia solo “spazio delimitato” (geograficamente o istituzionalmente) ma quale unitarietà di “luoghi” nel significato antropologico assegnato loro da Marc Augé[7]: luoghi cioè dotati di senso, ricchi di relazioni, significati, narrazioni contrapposti ai “nonluoghi” caratterizzati da anonimi “passaggi” puramente funzionali. “Se i luoghi antropologici creano un sociale organico, i nonluoghi creano una contrattualità solitaria” e non sono sottoponibili ai tipici strumenti della antropologia: autostrade, stazioni di servizio e ferroviarie, centri commerciali ecc.
Naturalmente in un territorio vi sono luoghi e nonluoghi e la loro contrapposizione non è assoluta ma un nonluogo può essere trasformato in un luogo e viceversa. Ricordo come era la stazione di Arona quando l’allora Capostazione ne curava non solo pulizia e servizi per i viaggiatori ma l’abbelliva con curate fioriere: un luogo dove i pendolari che quotidianamente si avviano a Milano erano implicitamente incoraggiati a intessere relazioni. All’opposto dell’attuale Stazione di Verbania (quella del “Capoluogo provinciale”!) dove non c’è né edicola né bar, né sala d’aspetto sul binario 2 (ex 3) e nemmeno, su questo binario in direttrice Milano, i tabelloni che informano per arrivi, partenze ed eventuali ritardi; stazione disorientante anche per i viaggiatori che vi arrivino da fuori per un nome che li avvertirebbe di essere a Pallanza mentre invece sono a Fondotoce.
Un “luogo” è innanzitutto caratterizzato dall’abitare e dalle relazioni: anch’esso può trasformarsi in un “nonluogo”. Se l’appartamento di fianco dall’essere abitato da un vicino con cui intesso relazioni diventa una “casa vacanze”, un nonluogo di passaggio indifferenziato e anonimo, anche il mio e l’intero caseggiato perdono una parte delle relazioni significative che li caratterizzano.
Dove “mi sento a casa”?
Sin qui ho espresso la questione della identità territoriale in termini generali e solo indirettamente personali. Provo a rovesciare il punto di vista: come concepisco e soprattutto come vivo la mia personale identità territoriale? Nel contempo invito chi legge a compiere la medesima operazione.
Dove mi “sento a casa”? Dove vivo il rapporto con il territorio come “presenza”? Dove i luoghi in cui mi soffermo sono significativi non solo in sé, ma appunto lo sono in modo particolare per la mia identità?
Naturalmente vi è un sentimento, un vissuto che non saprei definire altrimenti che costitutivo del mio essere, della mia identità: io sono di qui! E ci sono luoghi, che anche conosco e apprezzo, anche vicini, ma che non mi fanno vivere lo stesso sentimento, dove invece prevale la curiosità per l’altrove, ovvero della conoscenza intellettuale.
E se ho dei dubbi su dove si delimiti la mia personale identità territoriale vi è una significativa controprova: dove, in quali luoghi, in passato ho accompagnato amici e parenti lontani di altre regioni o nazioni con quella, solo in parte consapevole, soddisfazione di far conoscere “la mia terra” e indirettamente il mio essere/esserci. O, naturalmente, dove con lo stesso spirito li accompagnerei in futuro?
Faccio alcuni esempi tratti dal passato più o meno recente di questi “accompagnamenti”: sul versante alpino la Val Formazza (il fondovalle, la cascata, Riale, Morasco), naturalmente la Val Vigezzo dove ho la baita e le alture retrostanti, non mi dilungo sui luoghi del Verbano e del suo retroterra non dimenticando le parti percorribili della Val Grande e Corte Bué in particolare. Scendendo a Sud naturalmente le isole del Golfo Borromeo e la costa del Lago sino ad Arona e andando verso ovest Orta con la sua Isola e di lì risalendo lungo la Val Strona sino a Campello. Sul versante ovest Trarego e più in là la Cannobina. Questi, schematizzando, sono più o meno i confini della mia, ripeto, “personale” identità territoriale. È vero, in passato ho anche accompagnato lontani parenti in visita all’Eremo di Santa Caterina del Sasso, eppure la sponda del Lago che fu “magra” non la vivo, per richiamare De Martino, come “presenza”, vi è interesse ma non quel coinvolgimento emozionale “dell’essere a casa”.
Ovviamente questa approssimativa delimitazione della mia personale identità territoriale non necessariamente coinciderà con quella di chi mi legge o di altri abitanti di questa provincia per i quali la delimitazione può essere più o meno ampia e i “confini” spostarsi lungo uno o più dei quattro punti cardinali. Sono però convinto che per molti (non so se per la maggioranza) il rinchiudersi in una identità puramente di paese o cittadina o in una sola della triplice ripartizione del VCO, non corrisponda al loro vissuto, alla loro identità.
E qui nasce il problema. Un grossissimo problema. Posso riflettere su questa identità territoriale, approfondirla attraverso letture e percorrerla con quello che avevo chiamato “cammino sapiente”, riconoscerne i “marcatori”, condividerli con amici e così via. Ma non posso nominarla. Non ha un nome. Chi sono io in quanto appartenente a questo territorio che vivo come “presenza”, come posso chiamarmi e soprattutto come altri possono identificarmi?
Una identità è tale solo se è identificabile sia “dal di dentro” che “dal di fuori”, altrimenti è fragile, incerta. Se non ha una denominazione non è identificabile.
Non possiamo, ironizzavo un po’ di tempo fa, chiamarci Vicionesi e tanto meno “Verbancusiossolani”. Verbano-Cusio-Ossola non è un nome ma la sommatoria di tre nomi; in algebra sarebbe un trinomio, in italiano non saprei come definirlo.
Con un ulteriore problema.
Ad una identità provinciale incerta si aggiunge una identità regionale abbastanza fragile sia per note ragioni storiche che di collegamenti. Il dialetto tradizionale di Intra, ad esempio, è tipicamente lombardo[8] per non parlare delle parlate delle nostre valli che assonano con quelle dei confinanti Cantoni elvetici e non certo con la francesizzante parlata tipicamente piemontese. I collegamenti stradali e ferroviari sono per noi problematici con il capoluogo torinese ma agevoli con Milano. Per non dire altro.
Un “salto” dal locale (paese/cittadina) al nazionale e all’Europa. Siamo “di qui”[9], con qualche incertezza piemontesi, certo italiani, non sempre convintamente europei.
Una modesta proposta
Come possiamo definire questo territorio che ho tentato di circoscrivere, la corrispondente Provincia e pertanto come dichiarare a noi stessi e ad altri la nostra identità territoriale? Altri magari possono suggerire una denominazione più adatta ma a me sembra che il nome ovvio di “questo territorio” sia “Terra Lepontina[10]” e pertanto, spero e propongo, di chiamare anche ufficialmente questa provincia, che precedentemente equivaleva all’Alto Novarese, Provincia Lepontina.
“Ma tu vuoi cambiare il nome alla Provincia!” mi è stato detto recentemente. No!, non voglio “cambiare il nome”, ma proporne finalmente uno visto che “Verbano Cusio Ossola” non è tale ma una sorta di problematico “trinomio”, un accorpamento di tre nomi che non a caso non può avere il corrispondente aggettivo denominativo. Un nome in cui possiamo riconoscerci e che possa facilmente essere riconosciuto “da fuori”. Una proposta che, se condivisa e sostenuta da altri, potrebbe incarnarsi in una pressione verso le attuali e future rappresentanze politiche provinciali. Proposta che potrebbe divenir più praticabile se, come ormai da più parti si sostiene, si tornasse alla elezione diretta nelle province superando la aberrante e antidemocratica legge Delrio che divide i cittadini di serie A (eletti nei comuni) da quelli di serie B (tutti gli altri) esclusi dall’elettorato (attivo e passivo) provinciale.
Naturalmente la “modesta proposta” non porterebbe solo al vantaggio di acquisire finalmente un nome, ma potrebbe anche costituire un brand di richiamo che permetta facilmente di identificare dall’esterno il nostro territorio con le sue caratteristiche geografiche storiche e paesaggistiche. E, non ultima, una spinta ad abbandonare il misero campanilismo che ha caratterizzato, anche al loro interno, praticamente tutte le forze politiche provinciali con l’illusione che l’avvallo e la stimolazione di un esasperato localismo avrebbe dato loro maggior forza. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: un declino economico, sociale e demografico dovuto certo a molti fattori ma che il campanilismo politico ha certamente alimentato. Basti ricordare la squallida vicenda della sanità: non aver trovato un accordo e una visione unitaria ha penalizzato gravemente, e con buona probabilità irrimediabilmente, tutti quanti.
[1] Annibale Salsa, Il tramonto delle identità tradizionali, Priuli & Verlucca, Scarmagno (To) 2007.
[2] Sul “razzismo culturalista” sul mio blog cfr. I migranti e le nostre comunità.
[3] Maurizio Bettini, Hai sbagliato foresta. Il furore dell’identità, Il Mulino, Bologna 2020.
[4] Francesco Leonardi, Apicio moderno, Roma 1807.
[5] Cap. XXII “Disordine e cultura”, p. 151. Non mi ero mai cimentato in anagrammi enigmistici; comunque, memore delle partite di Scarabeo, ho provato a sottopormici. Ne è uscito un “tornati ai maglioni” ma mi pare che il rigido freddo artico sia ben lungi da arrivare.
[6] Giovanni Jervis, La conquista dell’identità. Essere se stessi, essere diversi, Feltrinelli, Milano 1997.
[7] Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2015.
[8] Così è stato giustamente catalogato, e documentato con supporto sonoro, da Roberto Leydi ne Il Paese di Lombardia, a cura della Regione, Garzanti, Milano 1978.
[9] Richiamo indirettamente il caso citato da Zygmunt Bauman che in Intervista sull’identità, ricorda come nel censimento ante seconda guerra mondiale ben un milione di abitanti della Polonia non sapeva definire la propria appartenenza nazionale (polacca, ebraica, tedesca, ucraina, bielorussa …) se non con un “siamo di qui”, “questa è la nostra terra” e vennero pertanto catalogati come “locali”. Cfr. Per una identità di territorio (ovvero “VCO addio?”).
[10] Vi sono ovvie ragioni sia storiche che geografiche. Il suggerimento implicito e recente lo debbo a Paolo Crosa Lenz con la sua rivista digitale “Lepontica” che dall’ottobre 2020 invia regolarmente ogni mese (recentemente ogni due mesi) a chiunque glielo richieda, in forma gratuita perché, come suole ripetere, “la cultura è bene comune”. Sui Leponti e sui confinanti Insubri si possono ricordare mostre, convegni e relative pubblicazioni: I Leponti tra mito e realtà (Locarno 2000 e Verbania 2001), Leponti ed Insubri. Due popoli a confronto in un’area di confine (Verbania 2001).
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