“Sono forse io il custode di mio fratello?” [Genesi 4.9]
Venticinque anni fa studiavo architettura. Architettura d’interni, per la precisione. Contemporaneamente, per avere qualche entrata, ho iniziato a lavorare per poche ore, poi sempre crescenti, in una piccola cooperativa sociale, su un progetto di tempo libero per minori ai margini, spesso seguiti dal Servizio Sociale Territoriale (SET); un luogo aggregativo con attività non sempre strutturate, ludico ricreative, in affiancamento a professionisti. Le relazioni che si creavano, un fare educativo grezzo, impreciso, molto spesso improvvisato ma, soprattutto, i piccoli effetti che tali relazioni producevano, hanno determinato una virata di rotta professionale. Questi legami improvvisati generavano germogli di cambiamento in giovani ragazzini che portavano fardelli esistenziali gravosi, spesso tragici.
In tal modo ho colto d’essere responsabile di mio fratello, perché una piccola parte del suo benessere dipendeva da ciò che io facevo o mi astenevo dal fare: è questo il processo dello sviluppo morale, si riconosce questa interdipendenza e se ne accetta la responsabilità che ne consegue. Questa è l’evoluzione che sottende il fondamento alla base dello Stato Sociale che si è poi articolato su una dialettica tra Etica e Razionalità strumentale. Tuttavia, dopo un secolo di felice coabitazione tra le due istanze, oggi il secondo elemento della coppia si è auto escluso, e l’etica è rimasta sempre più sola a farsi carico di tutto. E quando l’etica rimane sola è più vulnerabile, non le è facile restare in piedi in autonomia in un mondo sempre più materialista ed estetico. Alla domanda “sono forse io il custode di mio fratello”, chi risponde in modo affermativo tenta in tutti modi, ma senza successo apparente, di rendere questa risposta allettante nel freddo ed economicista linguaggio degli interessi. Ma chi è ai margini, chi ha sulla pelle i segni della tragicità dell’esistenza e non ha capacità economica, non ha un ruolo nello scacchiere sociale e non ha neppure valore come consumatore, rappresenta una classe al di fuori delle classi: questi ultimi, restano privi di una qualche funzione che possa apparire socialmente utile per un tranquillo andamento della vita economica.
L’argomento di ordine etico rappresenta l’ultima linea difensiva dello Stato Sociale rimasto. Parafrasando Dostoevskij che scriveva: “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, così oggi la qualità umana di una società dovrebbe essere rappresentata a partire dalla qualità della vita dei più deboli tra i suoi membri (anziani, disabili, minori ai margini…). Eppure, le attenzioni e le risorse al welfare continuano ad essere residuali.
Un titolo di Educatore Professionale ha segnato il mio ingresso nel mondo dei professionisti e nel ricco e rappresentativo mondo del Terzo Settore, caposaldo del lavoro sociale oggi. Gli anni passavano e gradualmente si è preso coscienza che essere liberi di tentare di fare qualcosa non ha niente a che vedere col riuscirci: la libertà non si identifica con l’onnipotenza! Questo è un aspetto da tenere ben in mente quando si ricopre un ruolo nel lavoro sociale. Quanto più abbiamo capacità di agire, migliori saranno i risultati che potremmo ottenere dalla nostra libertà: ma se non conosco profondamente me stesso, né il mondo in cui vivo e opero con le sue regole, leggi, dinamiche sociali e delicati equilibri di relazione, la mia libertà, prima o poi, si scontrerà rovinosamente contro la necessità. Sant’Agostino affermava: “mantieni il limite che il limite mantiene te”, conoscere i confini delle possibilità in campo è determinante per un sano operare.
La professione sociale è sempre più complessa perché si evolve con l’evolversi della società. Le risposte ai bisogni dei cittadini si articolano sempre più, pur in un panorama di risorse sempre più scarse. Iniziare una qualche attività di sostegno in un’associazione, motivati da un’encomiabile spinta morale di sostenere il prossimo in difficoltà, è ammirevole; per lavorare in un Servizio Istituzionale (probabilmente altrettanto ammirevole) è imprescindibile conoscere le peculiarità che si originano dalla natura esperta delle prestazioni che il professionista, consciamente e su una base progettuale, propone ed eroga, in un quadro di riferimento normativo e di responsabilità istituzionale (e deontologica).
Lavorare nel sociale presuppone fare i conti da un lato con le tragicità di vita delle persone in particolari momenti della loro esistenza (talvolta molto lunghi), dall’altra un confronto continuo e costante con una dimensione formale, con gli ostacoli interni alle Istituzioni, nati dalla storia di burocratizzazione del lavoro sociale che procede indisturbata così a lungo, proprio perché l’essenza morale delle attività di welfare, data per scontata, è stata relegata a retroscena nel lavoro quotidiano. I destinatari dell’assistenza si sono trasformati sempre più in fattispecie di categorie giuridiche e il processo di spersonalizzazione, endemico a ogni burocrazia, si è messo pienamente in moto anche qui.
Nel mondo della morale, ambiguità e incertezza rappresentano il pane quotidiano e non possono esserne espulse senza distruggere la sostanza morale della responsabilità, architrave del lavoro sociale. L’incertezza che incombe sul lavoro sociale è, né più nemmeno, l’incertezza endemica alla responsabilità morale insita nelle comunità.
Queste due dimensioni dovrebbero costantemente danzare insieme, generando risposte esistenziali di senso.
Dopo anni a lavorare come Educatore Professionale, poi Responsabile di Servizi Educativi, si è aggiunta una laurea in Scienze del Servizio Sociale, per incrementare competenze ed arricchire capacità di lettura e analisi delle situazioni sociali e organizzative incontrate. Lavorare nel sociale richiede la formazione di una professionalità di aiuto complessa, un saper aiutare con metodo e sapienza, in cui il professionista aiuta la società ad aiutare se stessa essendone membro interno e protagonista, lavorando all’interno di parametri organizzati ma in modo libero e aperto. C’è bisogno ogni volta di una mediazione intelligente raccordando l’universale delle leggi, con le esigenze particolari e uniche del singolo individuo, della famiglia, della comunità cui quel welfare è in potenza destinato. È una delicata mediazione professionale in cui l’esperto di servizio sociale diviene un tecnico specializzato nell’erogazione-dispensazione di risorse pubbliche e collettive, creando relazioni con le persone.
I servizi istituzionali devono mettere in campo competenze sempre più flessibili e maggiormente autonome (aspetto che il Terzo Settore domina meglio perché con mani più libere). La storia dei rapporti fra politiche pubbliche di welfare e professioni sociali è oscillata tra gli estremi della completa inclusione e quelli del relativo distacco. Oggi gli operatori sociali sono finiti ingabbiati nelle loro organizzazioni: da un lato impiegati di sportello per l’erogazione di interventi pubblici, dall’altro, a fronte della crescente complessità sociale, hanno dovuto di fatto assumere un ruolo aperto, comprensivo, spesso altamente creativo, all’interno di un quadro di rigide linee guida e tassativi vincoli.
Occorre vedere il lavoro sociale come un paziente lavoro di guida relazionale, un certosino lavoro di cucitura attraverso un metodo di rete che può essere compreso a fondo solo entrando pienamente in un’intuizione più profonda: l’idea secondo cui i problemi sociali sono generati da relazioni sociali e possono essere risolti solo se le relazioni sociali che strutturano una situazione o un contesto, si modificano. È la forma del Care, del prendersi cura che considera la persona nella sua completezza e complessità, metodologia dell’esserci per l’altro diametralmente opposta al Cure del mondo sanitario, dove, in risposta ad un bisogno specifico, si risponde in maniera meccanicistica e parcellizzata considerando il solo sintomo.
E nel Care del lavoro sociale, la costante pratica riflessiva assume un ruolo chiave nel determinare le risposte via via da ritarare nel corso dell’azione. La riflessività deve essere considerata non tanto una condizione sufficiente nel bagaglio di un professionista o una pratica morale, quanto qualcosa di assolutamente necessario nell’operatività quotidiana. La riflessione nel corso dell’azione si configura come l’elemento centrale di una “abilità artistica” di cui i professionisti sono esperti: è una transizione continua tra pensiero e azione, tra teoria e prassi, tra creatività ed esperienza pratica.
L’esercizio costante della riflessione richiede al professionista di disporre di un’abilità creativa come insieme di competenze che si mettono in evidenza in situazioni di pratica uniche, incerte e conflittuali, un processo conoscitivo da cui scaturiscono nuove ipotesi interpretative.
Gli operatori sociali sono sempre stati individuabili come professionisti attivi nell’ambito di professioni “minori” perché il loro agire non si basava, se non occasionalmente, sulla traduzione operativa di forme di conoscenza costruite attraverso protocolli di ricerca definibile come “scientifica”, secondo un paradigma positivista come nel sanitario. Questi professionisti si confrontano costantemente con problemi che evidenziano unicità e imprevedibilità: è una quotidianità problematica di ampia rilevanza sociale, problemi non maneggiabili, né risolvibili con procedure univoche e standardizzate, ma calibrate per le persone, con le persone.
L’agire professionale è quindi costantemente chiamato a fare i conti con l’imprevisto, il nuovo, il problematico, che richiede al professionista di esercitare forme di razionalità e competenze funzionali alla messa appunto di nuove ipotesi interpretative e risolutive e costruzioni di nuove forme di conoscenza: diventa necessario acquisire abilità e competenze multiple insieme ad un’abilità dell’implementazione e dell’improvvisazione, mediate dall’uso nella pratica delle scienze e di una metodologia specifica e professionale.
L’operatore sociale per definizione è colui che sollecita l’emergere di differenti punti di vista, non ha paura della divergenza e della pluralità, ma la considera un presupposto fondamentale per una sintesi più alta e più ricca, sviluppata da una riflessività ben esercitata.
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