Il metrò dondola, ma a loro non importa, loro sono l’uno di fronte all’altra, a perdersi in sguardi e risatine, a parlottare piano di chissà quale segreto adolescenziale, a tenere a stento a freno il desiderio di baciarsi infrangendo mille regole morali, a sfiorarsi quasi per caso…
Il luogo: Calcutta; l’anno: il 2023.
Per la terza volta sono in India a ripercorrere, 25 anni dopo, le strade del nord (nel 2006 visitai il sud) e due domande sono inevitabili: cosa è cambiato in questi luoghi? Cosa è cambiato in me?
Nel 1998 ero un giovane che aveva visitato qualche paese europeo (alcuni in modo molto avventuroso) e Cuba, ma l’India si presentava del tutto diversa: avevo 47 giorni a disposizione, molto più tempo di quanto ne avrei mai avuto in seguito, uno zaino enorme, sia per l’inesperienza che per i diversi climi che avrei affrontato, era un paese che sapeva di esotico, lontano e di cui non sapevo granché, ma avevo dentro la voglia di scoprire, di entrare in contatto con una terra che sapeva di mito. Il mio sguardo è ora più disincantato e l’esperienza mi regala meno sorprese di un tempo, ma resta la voglia di avvicinarsi a un mondo che era e resta alieno rispetto al resto dei paesi che ho visitato.
Per citare una mia amica, “qua l’aspetto culturale permea tutto, come un olio che viene versato da centinaia di anni in un ingranaggio”: ricordo che questa caratteristica mi aveva affascinato già all’epoca, ma quello che davvero mi aveva fatto innamorare di questo mondo travestito da nazione era l’insieme delle sue contradizioni.
So che non si dovrebbe fare, ma non mi vengono parole migliori di quelle che avevo scritto nel mio libro e quindi spero vogliate scusare l’autocitazione: “L’India, dove gli estremi convivono senza apparente stridore, dove il tutto e il suo opposto possono camminare a braccetto nascosti in qualunque angolo, è tutto questo e molto di più: mamma dolce e compassionevole, spregevole sorellastra, è forse la massima rappresentazione dell’uomo con le sue vette ed i suoi abissi, la sua capacità di cogliere schegge di infinito e di distruggerle senza rimpianto”.
La crescita economica di questi ultimi decenni, l’India ha superato Francia e Italia raggiungendo il 6° posto nella classifica del PIL, è palpabile: nuove strade in costruzione, nuovi palazzoni, ma soprattutto la riduzione dell’estrema povertà che, pur ancora presente per una larga fascia di popolazione, in molti casi ha ceduto il passo alla crescita del ceto medio, riducendo notevolmente quelle situazioni limite in cui era facile incappare venticinque anni fa; l’onnipresenza dei cellulari, l’aumento di mezzi di locomozione a motore, la quasi totale scomparsa delle biciclette, sono solo alcuni degli evidenti cambiamenti rispetto a un tempo in cui una semplice macchina fotografica digitale suscitava tanta curiosità.
Anche a dei semplici turisti alcuni aspetti del retro della medaglia di questo miglioramento delle condizioni di vita, al di là delle considerazioni sociologiche, che richiederebbero tutt’altro spazio, appaiono evidenti: il traffico nelle piccole/medie città ha raggiunto livelli invivibili, è un tetris lentissimo quasi incomprensibile agli occhi di un occidentale, tanto lo spazio tra bus, auto, motorini, motorickshaw o tuk tuk, mucche e altri animali è limitato fino all’inesistenza, tanto che a volte è impossibile riuscire ad attraversare la strada nonostante la circolazione sia ferma; lo stordente suono contemporaneo di decine di clacson; il rapporto con noi che, se da una parte è normalizzato dalla globalizzazione, dall’altra provoca ancora interesse tanto che non passava giorno senza che ricevessimo la richiesta di fare un selfie con loro; Calcutta che, nonostante mantenga ancora un’affascinate aria coloniale, ha perso molto di quell’anima che mi aveva fatto innamorare di lei.
Salta immediatamente all’occhio che, come allora, sia che debbano salire su un treno, o fare una fila, o guidare nel caos, tutti spingono, cercano di infilarsi, di passare avanti; la cosa incredibile è che, alla reazione di chi subisce questa piccola furbata, non corrisponde un ulteriore replica, che porterebbe a un battibecco, ma una ritirata: è un insieme di prepotenza e resilienza, come se il fluire scomposto e disordinato sia inevitabile e quindi lo si accetta come tale, come una parte dell’esistenza.
Poi, certamente, nelle zone rurali persistono le tradizioni, comprese quelle che a noi appaiono arcaiche: è ancora diffusissimo il matrimonio combinato; alle donne spetta un ruolo sociale secondario, visto che non possono lavorare e conquistarsi di conseguenza l’indipendenza; è ancora evidente l’esistenza delle caste, con la schiera di intoccabili che, silenziosi, ci ruotano attorno svolgendo le azioni più umili, stupendosi per un grazie a loro non dovuto; le azioni della quotidianità sono ancora legate alla comunità, più che al singolo.
In noi, permeati come siamo da indipendenza, libertà, individualismo, questo genera un senso di fastidio, di rifiuto, ma ci dà anche la grande occasione di vedere la vita da un altro punto di vista, quello del, per usare una definizione tanto in voga, Sud globale, quella parte di mondo che non mette al centro l’individuo, ma la comunità, la famiglia, il clan e, forse, prima di alzare il sopracciglio, varrebbe la pena cercare di comprenderne le ragioni non per negare le conquiste della nostra cultura, ma per smussarne gli eccessi.
Tra le cose che non sono cambiate, come scordare la loro rumorosa spiritualità, la commistione di meditazione, rumore, urla, musica ad altissimo volume, il tutto in spazi ridottissimi, in un premersi e respingersi tra corpi, là dove sacro e profano si amalgamano senza soluzione di continuità, colore e buio, il caos che unisce spirito e carne in un carnaio nel quale i fedeli sembrano surfare come su onde immaginarie.
A Varanasi, per esempio, ogni sera si svolge la cerimonia Ganga Aarti, dove i cerimonianti, giovani appartenenti alla casta dei brahmani, attraverso canti e inni, suoni di campanelli, elaborati volteggi con bastoncini di incenso, lampade di fuoco che creano giochi di luce, uniti a un insieme di gesti simbolici, si rivolgono alla Dea Madre Ganga, la Dea del sacro fiume; i fedeli vivono con grande partecipazione i diversi momenti dell’evento, intonando i bhajan, canti di gloria e gridando la loro devozione; a sottolineare che le contraddizioni sono sempre presenti, mentre tutto questo avviene, sullo sfondo nel Gange cartelloni elettronici sistemati su barche pubblicizzano svariati prodotti.
Fantastici anche i santoni coperti, come da tradizione, di pigmenti colorati e fiori, pronti a dare benedizioni, con i POS bene in vista di fronte a loro, si sa mai che qualcuno avesse problema di valuta!
Come dicevo prima, c’è tutto e il contrario di tutto in questo immenso Paese…
Mi sono concentrato molto sull’aspetto antropologico e culturale, ma ovviamente l’india è anche molto di più: oltre ai colori sgargianti degli abiti femminili, della vivacità dei mercatini, ci sono deserti che si perdono all’orizzonte, i paesaggi montani dell’Himalaya occidentale, le pianure alluvionali, le immense piantagioni di tè che viste dalla giusta distanza sembrano enormi cuscini nei quali lanciarsi, elefanti usati come animali da soma, mucche che la fanno da padrone sulle strade; c’è un brulicare di umanità che convive con un mondo dove gli animali, gli ambienti, il clima, le diverse orografie sembrano formare un immenso arlecchino che solo la schematicità geopolitica degli umani ha potuto unire in una unica nazione.
Dall’altra parte, come disse Terzani: “Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. È sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno.”
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