Il primo assioma della comunicazione, insieme agli altri quattro enunciati per la prima volta alla soglia del ’68 da Watzlawick e dai suoi colleghi di Palo Alto, dovrebbero esser entrati da tempo nel senso comune, almeno per tutti quelli che si occupano di educazione. Rispetto al modello logico o “matematico” elaborato un ventennio prima da Shannon e Weaver (emittente – codifica – messaggio – canale, con eventuale rumore – decodifica – ricevente) viene introdotta un’altra dimensione, quella comportamentale e contestuale, o se vogliamo analogica. Il cosiddetto rumore non è più un “disturbo”, ma ulteriore comunicazione che può arricchire, precisare, ma anche contraddire il messaggio.
Ne derivano alcune conseguenze, o corollari, di cui è utile aver consapevolezza:
Per uscire da quello che può apparire come un discorso astratto mi soffermo su un recente episodio di cui si è ampiamente discusso sui media. Un chiaro esempio di comunicazione inconsapevole: si tratta della circolare della preside del Liceo “Leopardi” di Aulla.
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Villafranca, 21 aprile 2023
Circolare n. 644
Ai docenti, agli studenti, ai genitori di tutte le classi sede di Aulla
Oggetto: debate
Giovedì 27 aprile 2023 alle ore 10.05 gli studenti delle classi succitate, accompagnate dai docenti in orario, si recheranno nella sala Consiliare del Comune di Aulla per partecipare al dibattito sul topico “Noi riteniamo che non sia più opportuno che il 25 aprile venga festeggiato come una festività nazionale”, animato da una squadra mista di alunni dei tre licei lunigianesi.
Al termine dell’attività, presumibilmente intorno alle ore 12.00, si farà rientro in classe per completare l’orario curricolare.
F.to IL DIRIGENTE SCOLASTICO
SILVIA ARRIGHI
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Dato per scontato che né la Preside e la sua scuola, né il Comune ospitante avessero intenzione di sostenere le tesi negazioniste della Resistenza e negare il valore del 25 aprile, come successivamente “precisato” da entrambi gli enti, il messaggio della circolare nel contesto temporale (a ridosso del 25 aprile) e tematico (le polemiche da parte di esponenti nazionali della nuova maggioranza) produce invece l’effetto opposto. La sua lettura da parte di chi non era direttamente coinvolto nella iniziativa sembrerebbe confermare il contrario: ovvero che è lecito e magari anche opportuno abolire la festività nazionale del 25 aprile con tutto ciò che una tale scelta significherebbe sui valori fondativi della nostra Repubblica. E così ovviamente è stata letta con il risultato che l’iniziativa, “per evitare ulteriori polemiche”, è stata poi annullata[1].
Nel tentativo di chiarire la vicenda la scuola parla della metodologia del “Debate”, metodologia didattica che consiste in una gara argomentativa, con regole codificate, tra due gruppi di studenti che sostengono tesi opposte a partire da un titolo “topico” che può apparire provocatorio e si dà quale altro esempio la tesi del terrapiattismo.
Non si tratta di una metodologia “locale” ma da tempo praticata in molte scuole e sostenuta dall’Indire[2] che così la definisce:
Debate (Argomentare e dibattere)
Il «debate» è una metodologia per acquisire competenze trasversali («life skill»), che favorisce il cooperative learning e la peer education non solo tra studenti, ma anche tra docenti e tra docenti e studenti. Il debate consiste in un confronto fra due squadre di studenti che sostengono e controbattono un’affermazione o un argomento dato dal docente, ponendosi in un campo (pro) o nell’altro (contro). Il tema individuato è tra quelli poco dibattuti nell’attività didattica tradizionale (…)
Personalmente ho molte perplessità su questa metodologia didattica che tra l’altro c’entra poco con cooperative learning e peer education.
Cerco di spiegarmi. Il presupposto è che esista una tecnica di argomentazione neutra rispetto ai valori e alle tesi sostenute. Ma allora il tema scelto dovrebbe essere estraneo al contesto valoriale. Questo potrebbe valere in ambito scientifico dove le questioni aperte sono però al di fuori della portata di studenti di scuola secondaria, oppure su questioni liberamente opinabili a prescindere dai valori; ma in quest’ultimo caso si andrebbe a discutere su questioni del tutto banali.
Nel caso in esempio (25 aprile) o altri simili (es. pena di morte) come si scelgono poi le squadre? Tra l’altro il sito di Indire che presenta possibili modalità di Debate a più livelli di crescente complessità, su questo punto è invece molto vago. A caso (sorteggio, ecc.) o si tiene conto delle opinioni dei partecipanti? Come? Costringendo magari a sostenere una tesi non condivisa e contraria alle proprie convinzioni e valori?
Il messaggio implicito è che le due tesi siano del tutto equivalenti, ma è evidente che non lo sono. E che comunque le tesi possibili siano dicotomicamente due (tesi “A” e antitesi “non A”) in una logica binaria mentre nella maggior parte dei casi reali prevale una logica fuzzy a più valori.
In sostanza mi pare una metodologia al passo con questi tempi dove sembra esser lecito sostenere qualunque assurdità al di là dell’evidenza e pertanto lasciando libero spazio alle fake news e alla possibile negazione dei valori fondanti di una società democratica (es. razzismo) e dove quello che conta è vincere (il cosiddetto “merito”).
Diverso è il caso del cooperative learning e della peer education che non sono metodologie neutre ma strategie con esplicite finalità valoriali: la cooperazione (e pertanto l’inclusione[3]) nel primo caso, la prevenzione nel secondo.
Questo significa che non è opportuno sviluppare abilità logico argomentative attraverso spazi appositi? Certamente no, anzi! Ad esempio nel 2002, ben prima che si parlasse di Debate, nell’indirizzo di Scienze Umane e Sociali abbiamo dato vita ad un Progetto Agorà volto alla acquisizione e sviluppo progressivo di competenze dialogiche (documentazione, ascolto attivo, comunicazione efficace, strutturazione logica ed argomentazione, osservazione/auto-osservazione e giudizio) attraverso uno spazio di discussione strutturata e monitorata su tematiche culturali, sociali e politiche. Le differenze principali rispetto al Debate: un argomento, scelto alternativamente da studenti e docenti e non tesi dicotomiche; non squadre contrapposte ma fasi di discussione che dal piccolo gruppo arrivano alla plenaria; espressione argomentata da parte dei partecipanti delle proprie posizioni e del loro modificarsi nel confronto; monitoraggio, automonitoraggio e valutazione dell’esperienza. Tra gli argomenti allora affrontati ricordo ad esempio: Possibilità di legalizzazione dell’eutanasia, Altre dipendenze (fumo, alcool, gioco, mode …), Trasmissione televisiva Il Grande Fratello…[4].
Non è un refuso. La professionalità docente si acquisisce e si esercita collettivamente e la qualità di una scuola non dipende dalla qualità dei singoli ma dalla capacità dei docenti di lavorare in sintonia all’interno di una programmazione e finalità comuni. Se questo non avviene le modalità didattiche e gli stili di insegnamento dei docenti che agiscono sugli stessi gruppi classe possono esser fra loro incongrui con risultati contraddittori e negativi indipendentemente dalla competenza culturale e didattica dei singoli. La comunicazione “fra colleghi” non è allora da intendersi fra attività e percorsi paralleli ma di forma circolare, quella appunto che caratterizza una équipe affiatata.
Non è questa l’immagine normalmente percepita al di fuori del contesto scolastico, dalle famiglie e nei media, per non parlare della filmografia dove si è imposto il topos dell’insegnante eroe che, spesso in contrasto con colleghi e dirigenza, trasforma una classe demotivata e disagiata, plasmandola a sua immagine. Tutti, immagino, hanno visto e si sono magari commossi di fronte alle vicende del professor Keating e dei suoi allievi ne L’attimo fuggente divenuto il prototipo di film analoghi[5] per trama e dinamiche, altrettanto fuorvianti su ruolo e professionalità docente. Vale allora la pena fare un confronto con un film apparentemente opposto come L’onda e scoprire che, sia pur con finalità diverse, anzi antitetiche, le modalità didattiche e le dinamiche innestate dall’azione “educativa” di Keating e Wenger siano sostanzialmente analoghe.
No, la comunicazione educativa non avviene fra un singolo (il docente) e un gruppo (la classe), ma a più livelli a partire dalla specifica scuola con le sue regole di comportamento (effettive più che formali), dalla stessa struttura fisica ed anche dal suo aspetto esteriore di ordine e cura (o viceversa di incuria), sino alle équipe (gli insegnanti di un Corso e i singoli Consigli di classe) e le classi degli studenti, anche loro con dinamiche e modalità relazionali complesse e non sempre esplicite.
Affinché si realizzino équipe ben integrate, in grado di agire in sintonia e realizzare progetti didattici congruenti – sia che questi siano da loro stesse concepiti, oppure recepiti da proposte esterne – queste abbisognano di tempo e pertanto di stabilità, cosa oggi non facilitata dalle recenti normative e dalla tendenza a frammentare l’orario con mini corsi di due ore settimanali; e non sempre i dirigenti scolastici sono consapevoli di questa esigenza.
Vi sono comunque pratiche di facile realizzazione che possono facilitare una professionalità condivisa. Quella più diffusa è certamente la compresenza con due o più insegnanti che intervengono su una classe o su classi riunite: tali attività non solo comportano arricchimento reciproco ma richiedono di mettere in sintonia reciproche modalità, contenuti e finalità.
Un’altra pratica, sperimentata e promossa dall’IRRSAE Piemonte quando la coordinatrice storica della Sperimentazione del Cobianchi vi si era trasferita, è quella dell’amico critico: un collega interviene durante una o più lezioni in qualità di osservatore con un attento monitoraggio delle interazioni, verbali e non verbali, fra il docente e la classe. A tal fine possono essere utili apposite schede su cui riportare tali osservazioni come quelle realizzate al Cobianchi all’interno di un Progetto qualità (1998-2001) sulla Comunicazione verbale e la Comunicazione non verbale[6]. Successivamente i ruoli vengono scambiati e l’osservatore diventa osservato.
Se la comunicazione ed interazione didattica avviene fra due gruppi, l’équipe dei docenti da un lato e il gruppo classe dall’altro non bisogna sottovalutare il fatto che ogni classe ha specifiche caratteristiche date non solo dalla sommatoria dei singoli, ma soprattutto dalle dinamiche che intercorrono fra gli studenti (e fra studenti e insegnanti), dinamiche che possono sia favorire l’apprendimento da parte del gruppo che contrastarlo, dinamiche non sempre facili da leggere. In più casi può essere utile sia l’intervento di un esperto/osservatore esterno che l’utilizzo di questionari o altri strumenti di ricerca che evidenzino le problematiche ed eventuali tensioni sotterranee e permettano l’individuazione e progettazione di percorsi idonei ad affrontarle[8].
Il gruppo classe è infatti vissuto come un luogo forte di coinvolgimento emotivo, sia in positivo (le amicizie, le fedeltà, le esperienze forti) che in negativo (rifiuto, sofferenza, solitudine). Inoltre fra il gruppo classe “formale” (l’elenco del registro) e quello informale (quello delle amicizie e degli affetti) può esserci una forte discrepanza; all’interno di quest’ultimo può costituirsi un gruppo classe “segreto” che accetta ed include ma, in altri casi, rifiuta ed ostracizza (compagni di classe e talvolta insegnanti) e che può muoversi secondo prospettive del tutto incongrue con le finalità educative. La vita della classe può diventare allora un vero e proprio inferno con conflitti più o meno latenti, incomprensioni reciproche fra insegnanti ed allievi, estenuanti contrattazioni, ecc. Il luogo meno adatto insomma ad una positiva crescita culturale, professionale, sociale e civile.
L’attenzione nel mondo occidentale al fenomeno del bullismo è relativamente recente per poi diventare, da categoria assente, a termine di largo utilizzo, spesso a sproposito. Le prime indagini a partire dagli anni ’70 sono quelle dello svedese Olweus che si concentrava sulla figura del “bullo” e sulle sue caratteristiche. Questa metodologia di ricerca, applicata nei decenni successivi in diversi paesi, Italia compresa, registrava il fenomeno soprattutto nella scuola elementare e media per poi decrescere e scomparire con l’avanzare dell’età.
Nello stesso periodo in Giappone si sono sviluppati gli studi sull’Ijime, una dinamica di gruppo che tende ad ostracizzare ed emarginare alcuni dei suoi membri. Dinamica spesso ignorata dagli adulti e talora anche, più o meno consapevolmente, da loro rinforzata. Le ricerche effettuate nelle scuole secondarie, anche nel nostro territorio, hanno evidenziato come proprio questa sia da un lato una modalità ampiamente diffusa e dall’altro quella che produce maggiore sofferenza nelle vittime. Essere in grado di “leggerla” nella quotidianità significa conoscere e riconoscere le dinamiche che non si limitano a due soggetti (il bullo e la vittima) ma all’insieme delle relazioni nella classe, nella scuola e fuori dalla scuola (es. nei gruppi associativi e sportivi). Dinamiche che hanno a che vedere con la costruzione dell’identità del gruppo e il costituirsi al suo interno di una leadership.
Questa dimensione gruppale ed identitaria della dinamica da un lato include ed esclude (ostracizza), dall’altro costruisce e/o rinforza la leadership del gruppo stesso. La designazione della/e vittima/e cambia pertanto caratteristica da classe a classe, da scuola a scuola. Per fare un esempio in una classe può essere vittimizzato il “secchione” che va benissimo a scuola e in un’altra invece lo studente con difficoltà di apprendimento, quello/a che veste elegante e in altro caso quello/a che non indossa capi di abbigliamento firmati, ecc.
Se non si sa leggere la dinamica di quello specifico gruppo il risultato è che il bullismo (l’ostracismo) per adulti ed educatori sia invisibile oppure lo si avverta solo quando interviene qualche episodio eclatante. Magari proprio quando la vittima, a lungo sottoposta a persecuzioni, “esplode” e reagisce anche in modo violento con la conseguenza, non infrequente, di esser lei quella sanzionata. Oppure quando è troppo tardi perché ha messo in atto la sua strategia di fuga: cambio scuola, abbandono degli studi, ritiro sociale (Hikikomori) … o peggio, sino al suicidio[10]. Un aspetto da non ignorare è che le vittime normalmente si vergognano e non vogliono che le loro sofferenze diventino pubbliche: il dover ammettere di essere sottoposte a continui soprusi può esser fonte ulteriore di enorme sofferenza.
Da un po’ di anni si parla di cyberbullismo, il più delle volte come se fosse un fenomeno a sé stante, indipendente dal bullismo e addirittura come “un pericolo che viene dalla rete” (testuale da un articolo giornalistico). Il bullismo (l’ostracismo) ha residenza elettiva nella scuola e, secondariamente, in altri momenti aggregativi dei pari: ha radice nella relazione reale e semmai rinforzo attraverso il web che per le sue note caratteristiche velocizza le dinamiche e amplifica la platea.
[1] Sul dibattito scaturito dalla circolare si può ad esempio leggere l’articolo pubblicato sul quotidiano locale La Voce Apuana del 24 aprile.
[2] Cfr. https://innovazione.indire.it/avanguardieeducative/debate
[3] L’opposto della “scuola del merito” non è ovviamente la “scuola del demerito”, ma appunto la scuola dell’inclusione che non è altro da una scuola autenticamente democratica. Le pagine di don Milani della Lettera a una Professoressa sono ancora, drammaticamente, attuali.
[4] Non è qui possibile dettagliare il progetto completo che è comunque possibile visionare ed eventualmente scaricare dall’archivio del mio blog: < qui >.
[5] Si possono ricordare la variante musicale di School of Rock d(2003) e quelle al femminile: Mona Lisa Smile (2003), Freedom Writers (2007) e Una volta nella vita (2014).
[6] Consultabili e scaricabili dal mio blog Fractaliaspei: Scheda di Osservazione della comunicazione verbale e dell’interazione didattica < qui > e Scheda di Osservazione della comunicazione non verbale < qui >.
[7] Per un’analisi più articolata di questa tematica e l’esemplificazione di alcune pratiche didattiche volte a mettere al centro il gruppo classe e le sue dinamiche rimando ad un contributo collettivo pubblicato nel 2007 dai docenti dell’allora Indirizzo di Scienze Umane e sociali del Cobianchi nel volume Nuovi saperi per la scuola edito da Marsilio e scaricabile < qui >.
[8] Un percorso con queste caratteristiche è documentato sulle rivista delle Scuole sperimentali: Competitività, cooperazione, creatività e filosofie ellenistiche in Sensate Esperienze. Rivista trimestrale della scuola secondaria, ottobre 1994. In forma più completa l’esperienza è documentata sul mio blog.
[9] Anche su questa tematica rinvio a contributi sul mio blog: Il bullismo dalla fotografia al video e Bullismo (e Cyberbullismo). Letti con categorie dinamiche.
[10] La cronaca ci riporta periodicamente alcuni di questi episodi drammatici; ne ricordo due di larga risonanza, apparentemente opposti ma nelle dinamiche sottostanti molto simili: il suicidio dieci anni fa della quattordicenne Carolina Picchio e la recente strage attuata dal tredicenne Kosta in una scuola di Belgrado. Due sofferenze da parte di studenti scolasticamente irreprensibili, portate all’estremo dal gruppo dei pari e ignorate dal mondo adulto. Le parole fanno più male delle botte ha scritto Carolina; del tredicenne serbo le prime testimonianze dicono che era un nerd, considerato sfigato da compagni e compagne ed emarginato, in particolare nelle attività esterne alla scuola (parco giochi, gite ecc.).
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