Ne abbiamo parlato con la psicologa Francesca Oliva, da alcuni anni impegnata sul tema del fine vita e delle cure palliative. Con l’Associazione Angeli dell’Hospice ODV si occupa della formazione e supervisione dei volontari che operano in Hospice e nelle cure palliative territoriali, e supporta le persone a fine vita, i loro caregivers e coloro che hanno subito una perdita.
Credo che il tema della memoria e del raccontarsi abbia molto a che fare con la dignità delle persone, indipendentemente dall’età. Pensando a un anziano, ospite di una RSA, il concetto si amplia. È difficilissimo infatti, anche nella miglior struttura, con la migliore équipe, mantenere e continuare a coltivare la propria dignità, per il semplice motivo di essere lontano dal proprio mondo privato.
La distanza dalla casa, dalle abitudini fa correre il rischio di perdere il contatto con la vita stessa, con la propria esistenza, la propria memoria. Ritengo sia indispensabile per queste persone, ma credo lo sia per tutti, specie nei momenti di difficoltà, riuscire a ripensare alle pagine della propria vita, perché è nelle nostre esperienze e nelle nostre relazioni che si determinano la nostra identità e il senso stesso del nostro vivere.
Trovare uno spazio in cui sia possibile lavorare su chi si è stati, fare ordine nei propri cassetti, scoprendo che in quei cassetti c’è un sacco di vita, è un’occasione preziosa per riacquistare la propria dignità e il proprio spazio nel mondo. Spesso gli anziani ricoverati in RSA, al di fuori dal rituale di narrazioni stereotipate, con gli stessi familiari o con gli operatori che si devono preoccupare dei bisogni contingenti e quotidiani, non hanno nessuna occasione per poter parlare di sé, per poter raccontare le esperienze avute. I dialoghi si limitano quasi sempre alla patologia dell’anziano e alle evidenze del suo deterioramento cognitivo. In realtà, anche in individui con una demenza avanzata, se trovi una connessione narrativa, puoi attivare conversazioni molto profonde, che dall’esterno possono apparire sconnesse, ma che per quella persona sono assolutamente necessarie e funzionali al suo sentirsi nel mondo.
Certamente! Credo che il racconto debba avere proprio questo obiettivo: dare un senso a quello che mi è accaduto, dare un senso a me stesso e al mio essere qui adesso.
Ho osservato pazienti, nelle ultime fasi della loro vita, attivarsi con piacere nel rispondere a domande sulla loro storia personale. La prima reazione è sempre “ma io non ho fatto niente di particolare”, come se il racconto dovesse sempre essere eclatante; in un secondo momento, però, quando cadono le resistenze e si lasciano andare ai ricordi, li vedi trasformarsi. Spessissimo persone con un tono molto depresso, spento, in questo raccontare si rianimano all’improvviso. A volte sono persone che magari muoiono dopo una settimana, eppure in questo riconnettersi con la dimensione della propria identità – il lavoro, la scuola, le sorelle e i fratelli, i giochi dell’infanzia, i luoghi – ritrovano quel misto di stupore e di orgoglio, quella dimensione perduta, quella dignità lesa.
Lo stare nel qui e ora è per l’anziano un modo per proteggersi: da un lato c’è il pensiero che il tempo che si ha davanti è molto poco, dall’altro, la sensazione che nel passato ci siano più assenze che presenze. Guardare indietro costringe a una grande rielaborazione del dolore della perdita. Luoghi come le RSA, inoltre, ti allontanano del contesto in cui sei vissuto e diventa difficile creare delle connessioni, specie se non hai un’amicizia che da fuori ti porta il mondo o dei familiari particolarmente riattivanti.
Va anche detto che, all’interno di una struttura, rischiano di consolidarsi dinamiche di gruppo che possono portare a una comune apatia. Ben vengano esperienze come il laboratorio di Montescheno che trasportano gli anziani oltre la routine, ridando un senso allo scorrere del tempo. Dare un senso diverso a quel tempo, trasformarlo in spazio vivo, utile, unico, in un flusso creativo contribuisce a coltivare la propria dignità, valorizzando il vissuto di ciascuno. Questo vale per gli anziani, ma anche per i giovanissimi: noi siamo definiti dalle cose che facciamo, dai nostri risultati, dalle nostre relazioni. In questo modo, invece, le dinamiche di gruppo permettono un rispecchiamento di esperienze e, nel racconto dell’altro, ritrovi pezzi della tua storia personale che nel confronto diventa collettiva, condivisa, ancora più autentica: pensiamo fra tutte l’esperienza della guerra, ma anche i giochi, i cibi, il lavoro.
A una certa età è come se si ritornasse a quel principio di concretezza che i bambini hanno quando sperimentano il mondo. In questo vecchiaia e infanzia si assomigliano. La dimensione immaginativa, invece, è vero, si perde, a meno che una persona non abbia coltivato nella sua vita un’abitudine a esercitarla, dettata dal lavoro o da una passione, penso ad artisti, musicisti, ma anche grandi lettori.
La capacità di fantasticare è molto soggettiva, a volte, quando ho a che fare con gli anziani, penso che alcuni non se lo vogliano nemmeno permettere, perché è qualcosa ritenuto senza scopo né valore. Molto più riattivante portarli a ricordare cose concrete, che hanno fatto tutti i giorni.
Credo sia molto utile: contribuisce a spezzare e a riformulare una dinamica relazionale spesso cristallizzata; crea l’opportunità di vedersi reciprocamente da un punto di vista diverso e di esercitare in modo nuovo il proprio ruolo. La comunicazione intergenerazionale va potenziata. Mi è capitato di intercettare persone che vanno a trovare i loro familiari e non sanno cosa dire, non riescono a uscire dalla ritualità di frasi tipo “cosa hai mangiato? hai dormito?”. Invece, in particolare nei casi in cui l’anziano comincia ad avere un principio di demenza, bisognerebbe educare all’accoglienza del nonsense e non tentare inutilmente di ricondurre tutto alla normalità. Capire che la persona che hai di fronte non è più il papà, la mamma o il nonno che hai avuto, ma che è un po’ come un’altra persona. Accettare questo cambiamento significa elaborare un lutto anticipatorio e allo stesso tempo godere di un tempo nuovo, donato, inatteso.
Un’esperienza fatta insieme, come un laboratorio di narrazione, racchiude il valore profondo del “fare con” e non “fare per”, dove tutti i soggetti sono attivi, capaci, con una propria dignità da tutelare fino all’ultimo respiro. Siamo bravissimi e sappiamo tutto sulla gravidanza, su come trattare i neonati, i bambini, gli adolescenti, perché non sappiamo come rapportarci e vivere con le persone che vivono nell’ultima fase della vita?
L’oralità è un grande valore, perché in questo raccontarsi, facendo sentire ad alta voce i propri pensieri e ricordi, c’è la possibilità di agire in prima persona per mantenere la propria dignità, non è una terapia ma è una relazione d’aiuto. Narrare di me, aiutato da qualcuno che mi stimola a farlo, senza richiesta di performance o di ‘essere adeguati’ mi porta non solo a ricordare chi sono stato, ma anche chi sono adesso. Infine la narrazione orale contribuisce al consolidamento di una comunità, e anche una RSA è una comunità; lavora sul senso di appartenenza e sulla dimensione del gruppo, aiutando le persone “insieme per forza” a convivere meglio tra di loro e a riconoscersi, come figli di analoghe storie ed esperienze.
Diario di Bordo è la Newsletter periodica di Alternativa A… in cui è possibile approfondire e analizzare le tematiche relative all’associazionismo provinciale, le ultime notizie e le anteprime.
© Alternativa A • Casa Don Gianni | Via dell’Artigianato, 13 | 28845 | P.Iva 00984480038 | alternativa-a@legalmail.it | Domodossola (VB) | Privacy Policy | Cookie Policy