C’è qualcosa di più scivoloso che decidere di parlare di gioventù quando non si è più giovani?
Forse sì.
Forse essere uomo/bianco/padre di famiglia e parlare del ruolo della donna o dei diritti delle persone lgtbq+ o delle minoranze etniche nel nostro Paese è ancora più azzardato. Per cui, visto che almeno giovane, una volta, lo sono stato, si tratta di scegliere da dove iniziare.
Decido di non parlare di quando io ero giovane. Non ho voglia di sentirmi vecchio.
Quindi parlerò della generazione prima della mia e di quella che ha l’opportunità di essere giovane ora.
Partiamo quindi dai giovani negli anni 70: i fondatori delle nostre cooperative.
Tanti gli ingredienti che animavano quella popolazione.
Intanto tantissimi coetanei. Sembra una cosa banale, ma non lo è. Tanti coetanei vuole dire tanto confronto e più o meno tutti quei giovani sono cresciuti nei luoghi del movimento operaio o di quello delle associazioni cattoliche. Percorsi ai tempi ancora forti, sebbene all’inizio di una crisi che andrà peggiorando.
È il periodo in cui inizia la crisi occupazionale, che aprirà alle lunghe casse integrazioni e all’emergere di nuove marginalità. Sul piano sociale e politico persiste un forte senso di comunità, ma cresce il desiderio di rompere gli schemi e superare vecchi steccati ideologici; l’economia intanto diventa sempre più globale e introduce nuova linfa al conflitto tra individualismo e comunitarismo; la scienza apre nuovi orizzonti; la tecnologia invade sempre di più le case di tutti.
Molto degli spiriti rivoluzionari si rovescia nel buco della tossicodipendenza.
Intanto, boooom!, arriva la legge Basaglia: i pazzi non sono più pazzi e vanno liberati dalle loro squallide prigioni.
Si arriva così ai frenetici anni 80 e i giovani si trovano strade aperte e strade sbarrate. E come sempre devono decidere cosa fare. C’è chi prosegue a pensare che il posto fisso in fabbrica, o meglio, nel pubblico impiego sia la strada più sicura. Chi percorre nuove fortunate strade di successo, con l’informatica e la telecomunicazione a fare da apripista di un mondo nuovo, pronto da lì a poco a venire. Chi, condizionato da valori profondi anticonformisti, comunitari, di accoglienza dell’altro, sperimenta cose nuove, folli, destinate a una idealità alta e forse ad una sconfitta certa. Invece la sconfitta non arriva.
Così vengono aperte le prime cooperative destinate ad accogliere i disabili mentali e i tossicodipendenti. Bisogna fare tutto. Con la chiusura dei manicomi bisogna pensare alla casa per gli ex internati. I giovani caduti nella dipendenza vengono letteralmente recuperati per strada e vanno messi nelle condizioni di riprendere in mano la propria esistenza.
Tutto questo lo fanno i giovani. Si rimboccano le maniche, occupano luoghi liberi, vanno a vivere con le persone, vicino ai loro bisogni. E cominciano a capire come mettere insieme il pranzo con la cena. Va bene il volontariato ma bisogna dare un aiuto professionalizzato a queste persone che devono essere messe nelle condizioni di stare al meglio. E poi bisogna lavorare perché la mutualità prevalente di queste realtà è dare lavoro. Per fare cosa? Va beh, cose semplici: c’è da tagliare l’erba di un parco o gestire il parcheggio pubblico di un Comune il cui sindaco prova a capire cosa sanno fare questi ragazzi; ripulire un’area piena di rifiuti (le vecchie discariche a cielo aperto disseminate ovunque) e pensare ad un nuovo modo di raccogliere gli ingombranti e poi i rifiuti casalinghi; qualcuno ha dei campi a disposizione che vanno rimessi in produzione; si può andare a pulire l’ufficio dello zio o del prete. Gli enti pubblici non stanno a guardare. Si inventano proposte, danno una mano. Quindi vanno formati gli educatori, cercati gli psicologi, e poi ci sono nuove tipologie di fragilità a cui dare risposte. Le case di riposo cercano nuovi gestori, le persone psichiatriche hanno bisogno di spazi tutelati, adatti alle loro esigenze, le esigenze di molti bambini vanno capite e bisogna trovare il modo di gestire situazioni specifiche con persone capaci.
Piano piano, passo dopo passo, nascono sempre nuove imprese in forma cooperativa, che solo dopo il 1991, con l’entrata in vigore della legge 381 di quell’anno, si chiameranno cooperative sociali.
Quindi, cosa è successo?
È successo che per ragioni ideali forti, ragazzi che avrebbero potuto fare altre scelte di lavoro, hanno deciso di spendersi a favore della comunità. Hanno creato servizi in una zona grigia. A volte senza contratto. A volte senza riuscire neanche a pagare le persone. Piano piano hanno professionalizzato il proprio ruolo e quello degli altri, anche e soprattutto delle persone svantaggiate (così le chiama la legge 381/91) e passo dopo passo hanno reso il mercato consapevole del valore e della qualità del lavoro proposto. Questo processo ha permesso di fare emergere grandi capacità organizzative e professionali nei soggetti che in un primo momento venivano supportati e che oggi, non di rado, ricoprono ruoli di primissimo piano nelle cooperative.
Quella generazione ora sta andando in pensione: professionisti riconosciuti nella comunità che hanno formato nuovi lavoratori, partecipato a convegni nazionali e internazionali promuovendo le nuove professionalità, divenute poi percorsi di studio anche universitario, stanno chiudendo il loro ciclo lavorativo dopo avere creato il mondo della cooperazione sociale che oggi rappresenta circa il 10% del PIL del Paese.
Ottimo. Quindi i giovani di oggi (espressione che mi fa sentire Matusalemme) devono partecipare e diventare soci cooperatori per le stesse ragioni. Direi di no.
Due parole sulla mia generazione. Se la generazione che ha fondato queste imprese è stata mossa da intuizione e profondi valori, quella che è seguita è stata quella più significativamente coinvolta nella fase di professionalizzazione. Un processo fondamentale che, però, non di rado è stato accompagnato da una riduzione della spinta ideale. Va detto che le imprese hanno mantenuto il carattere democratico di gestione, ma il senso di partecipazione dei soci è cambiato molto e, vuoi per l’affermarsi ed il crescere da un lato di modelli cooperativi molto grandi (non è il caso delle cooperative del VCO ma il trend è ben visibile), vuoi per il disgregarsi della società comunitaria in favore di quella individualista, non di rado la partecipazione diventa un processo faticoso. Questo è un problema serio a cui le cooperative provano a dare risposta creando spazi di confronto e dibattito.
Se aggiungiamo che lo stipendio nella cooperazione sociale non è migliore, anche se neanche peggiore, di altri settori, l’occupabilità in cooperativa trova competitors agguerriti.
Allora perché un/una giovane dovrebbe preferire il lavoro in cooperativa?
Io credo che ci siano delle esigenze oggi, nelle nostre imprese, che una persona giovane può incontrare, imparare a capire e provare a risolvere.
In primo luogo le cooperative necessitano di nuova partecipazione. In questo senso chi ha militato o milita in associazioni locali conosce il valore del partecipare. Ci sono alcuni processi partecipativi, interconnessi a più livelli, locale-regionale-nazionale (penso a quelli delle ONG, al movimentismo ambientale e all’antimafia sociale, allo scoutismo, al mondo antagonista), che stanno diventando vere e proprie scuole politiche, capaci di aiutare potenzialmente il mondo della cooperazione sociale che aspira a condizionare la comunità in profondità, oltre che essere portatore di interessi economici. Se la cooperazione mantiene le relazioni con il movimentismo e trova un modo per contaminarsi reciprocamente con esso, allora troverà energie nuove e utili a rialimentare le istanze interne dei soci ma anche a rinnovare il proprio senso nella storia del Paese.
Esiste poi un piano sperimentale. Se la fase di avvio della cooperazione sociale ha avuto un che di situazionalista, anarchico, e la successiva fase di normalizzazione ha portato verso sistemi di gestione di impresa più strutturati, oggi va ritrovato un po’ dello spirito originario e vanno sperimentati con competenza e capacità di visione degli scenari in cui il comunitarismo recupera un suo senso economico. In questo aiutano molto le teorie del riutilizzo dei beni comuni, del riuso transitorio e della rigenerazione urbana, così come l’attenzione delle Fondazioni di comunità nel riallacciare le relazioni allo scopo di rendere la società più resiliente, o come l’affermarsi dei processi di welfare aziendale e welfare culturale che disegnano nuovi spazi professionali e di risposta ai bisogni inclusivi.
Siamo di fronte all’affermarsi del tutoraggio di comunità come tentativo di prendersi cura dell’altro in senso ampio, portando l’economia sociale verso nuovi traguardi che rimettano in movimento cultura ed economia.
Tutte le generazioni passate per la cooperazione hanno generato degli animatori di comunità. Lo vedo nel mio modo di lavorare e di quello di tanti colleghi. Costruire relazioni, reti con soggetti diversificati, apprendere le strategie dei diversi portatori di interesse intorno alle cooperative, aiuta a diventare un pezzo di quel sistema. Non so quante altre imprese economiche private attribuiscano ai loro responsabili un ruolo di promotore di idee e attivatore di progetti. La cooperazione crea questa magia. Permette ad una persona di fare la differenza per davvero.
Se oggi una persona giovane, capace e attenta, si trovasse di fronte alla scelta se rimanere in un territorio che offre poco economicamente e andare verso città e Paesi lontani a guadagnare ben altri stipendi, probabilmente sceglierebbe la seconda ipotesi.
Ma se a questa persona fosse data la possibilità di rimanere e incidere nei processi, farebbe la stessa scelta?
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