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Così, Frank McCourt nell’introduzione del gustoso libro autobiografico sulla sua esperienza di insegnante, Ehi, prof!, uscito nel 2005, introduce i lettori a seguirlo nei suoi primi passi da insegnante, inesperto e pieno di dubbi sulle proprie capacità, fino alla conquista di un meritato riconoscimento delle sue doti professionali e umane. Mentre scrivo questi due aggettivi, mi interrogo su quale scrivere per primo, quale sia il più importante e, infine, se si possano scorporare nel difficile compito dell’insegnare. Insegnare, cioè lasciare un segno. Mi sembra evidente che l’uno senza l’altro non possa essere efficace. Ripenso ad alcuni esempi di professore che ho trovato in letteratura, nei romanzi: l’italiano Starnone, Frank Mc Court, Daniel Pennac, autori che con grande auto-ironia hanno saputo narrare la propria carriera senza retorica e mettendo al centro del loro racconto la fragilità propria e dei propri studenti, un po’ alla volta legati in una relazione particolarissima, quella del docente che sa farsi adulto di riferimento per loro, dopo averne conquistato fiducia e un po’ di affetto….
Nel raccontarsi in cattedra hanno ben presente nella memoria le proprie esperienze di studente, e di studente non brillante, abbandonato nelle retrovie dei senza-speranza di recupero.
Forse per questo sono particolarmente attenti al clima di lavoro, allo sguardo con cui osservare i tanti studenti con cui sono incontrati in diversi indirizzi di studio.
Il brano che ho citato in apertura mi ha colpito per il riferimento al tema tanto attuale anche oggi: il malessere dei giovani, già emergenza nazionale negli Stati Uniti allora, anno 1958. Che l’adolescenza sia sempre un’età di passaggio e quindi, necessariamente di fragilità e di insicurezza, di amori e dolori intensi, di nuovi bisogni non è niente di nuovo, ma nel nostro presente, quello che Miguel Benasayag definisce l’epoca “delle passioni tristi“, il pessimismo diffuso e la solitudine interiore determinata da un individualismo sempre più spinto, sono diffusi segni di malessere nei più giovani sotto gli occhi di tutti. Il nostro è un tempo di crisi, anzi di traumi: una natura abusata e sfruttata al di là dei limiti, disuguaglianze sociali sempre più marcate, 28 guerre in corso sul pianeta[1], l’ultima delle quali così vicina a noi, una pandemia non ancora del tutto debellata. Sembra un paradosso: tecnologia e scienza sembravano in grado di risolvere tutti i problemi dell’umanità, ma nel presente rivelano i loro rischi, la loro incapacità di garantire un futuro pieno di positività e un greve pessimismo soffoca sogni e speranze del futuro.
È evidente che siamo in un’età di crisi e di conseguenza la crisi dei più giovani non è solo un malessere degli adolescenti, ma è una crisi della società, nella quale gli adolescenti si sono abituati a vivere. Alla difficoltà di crescere si somma la difficoltà di vivere in un mondo che non ha mantenuto le promesse fatte balenare. E la nostra scuola, in questo contesto, deve continuare a fare la sua parte.
Gli studi sulla realtà scolastica del nostro territorio, in particolare dall’osservatorio dell’Istituto Cobianchi, dove ho insegnato per molti anni, hanno segnalato che a partire dagli anni ’90 c’è stato un cambiamento nel profilo dei nostri studenti: ” come docenti, abbiamo avvertito una difficoltà crescente nella comunicazione con gli studenti, percepiti, rispetto alle generazioni precedenti, come meno coinvolti nell’attività didattica, meno consapevoli del senso e delle finalità della istituzione scolastica e delle sue norme implicite, più fragili ed inseriti in dinamiche relazionali tra pari decisamente più difficili da leggere. Ad un certo punto abbiamo smesso di parlare di” nuovi studenti” ed abbiamo cominciato a parlare di “nuovi adolescenti”, caratterizzati, tra l’altro, da una scarsa identità di ruolo quali studenti (essere studenti ed essere adolescenti si equivalgono: praticamente tutti i pari di età conosciuti sono studenti) ed abbiamo iniziato a confrontarci su questi temi fra noi e con il dibattito esterno alla scuola.”[2].
Questi aspetti, col passare degli anni, si sono resi più marcati e i nuovi studenti evidenziano sempre maggiori aspettative riguardo alla loro formazione individuale, spesso più interessati all’ambito relazionale e della socializzazione che a quello istituzionale dell’apprendimento.
Purtroppo questo individualismo si è trasmesso, loro malgrado, anche ai docenti: la stabilità delle équipe di lavoro che avevano garantito nei consigli di classe fisionomie definite ai diversi corsi scolastici si è incrinata, a causa di orari di cattedra sempre più spezzettati e di insegnamenti e completamenti orari su più corsi, anche per una scelta davvero miope di alcuni dirigenti scolastici di spezzare équipe affiatate con l’intento di diffondere pratiche didattiche omogenee nella scuola, come se gli insegnanti potessero essere utilizzati come talee, sradicate e impiantate qua là in un consiglio di classe o in un altro.
E anche questo segna un impoverimento dell’offerta scolastica, perché gli studenti percepiscono come un valore il lavoro di un consiglio di classe che si presenta compatto e che sa lavorare in sintonia. Nei libri cui accennavo prima, si staglia la figura dell’insegnante che usa il suo fascino e il suo carisma per coinvolgere gli studenti.
Ogni classe ha la sua personalità. Ci sono classi simpatiche che ti fanno pregustare la lezione. Gli alunni sanno che con loro stai bene e a loro volta stanno bene con te. Di tanto in tanto ti dicono che hai fatto una bella lezione e tu ti senti al settimo cielo. In qualche modo questo fatto ti infonde energia e mentre torni a casa ti viene voglia di cantare.
Ci sono classi che vorresti imbarcare sul traghetto per Manhattan e non vorresti vederle più. L’atteggiamento ostile con cui entrano e escono dall’aula ti fa intuire cosa pensano di te. Ma siccome le tue potrebbero essere tutte fantasie, cerchi di capire come conquistarli. Ricorri a trucchi che con altre classi hanno funzionato. Però non serve e il motivo è quella certa personalità.[3]
Una personalità che affascina è un valore aggiunto, ma quello che secondo me dà maggiori garanzie di riuscita è il lavoro di un’équipe di professionisti dell’educazione che seguono, giorno dopo giorno, con uno sguardo attento, i loro studenti, facendo tesoro di buone pratiche studiate e sperimentate con successo. Solo per questo aspetto non concordo con le tesi sostenute nei romanzi citati e nel saggio di Recalcati L’ora di lezione,[4] dove il ruolo del docente-star troneggia, rendendo l’ora di lezione impagabile. Certo, la “personalità”, lo stile unico del docente può fare la differenza, ma non è sufficiente, se non si inserisce in un contesto condiviso di metodi e di orientamenti perseguiti da un Consiglio di Classe.
Mi è capitato recentemente di leggere su La Stampa la bella intervista a un docente di filosofia torinese che per 40 anni ha insegnato con passione e serietà e, giunto al pensionamento, è stato salutato con testimonianze di grande affetto dagli studenti del liceo, tanto da meritare tre articoli sul quotidiano torinese. Afferma: “Fare l’insegnante vuol dire dare il proprio piccolo contributo a passare da una generazione all’altra. Ed è una cosa che va fatta.”[5].
Questo mi sembra un giusto presupposto da cui partire, perché nel lavoro in classe è fondamentale contribuire a creare un rapporto di fiducia negli adulti, premessa per includere le nuove generazioni nella vita civile e sociale: ma cosa ci proponiamo di passare da una generazione all’altra? Un oggetto del sapere? Un metodo? Un atteggiamento? Direi tutti questi aspetti.
“La scuola apre mondi“, come afferma Recalcati, e l’insegnante, sospeso continuamente tra la ricchezza delle conoscenze che vuole trasmettere e l’aspirazione a rinnovare, classe dopo classe, allievo per allievo, il gusto della scoperta di un nuovo mondo, gioca in un equilibrio che rende affascinante questo lavoro. “Loro erano convinti che stessi insegnando. Ne ero convinto anch’io. In realtà stavo imparando.”[6]
La classe è – o dovrebbe essere – il luogo in cui si parla e ci si ascolta, senza una finalità valutativa, giudicante, performativa. Sono rari gli altri spazi del mondo in cui questo avviene quotidianamente e le parole che si esprimono nell’aula appartengono a tutti, ad esse è affidato quel momento di formazione dell’essere umano che può avviare il processo dell’apprendimento. E l’apprendimento non procede a senso unico, ma si costruisce solo se lo studente può valutare criticamente e sentirsi arricchito da ciò che ne è l’oggetto.
Come dice poeticamente Pennac, “a ogni incontro ti accorgi che una vita è sbocciata, imprevedibile come la forma di una nuvola”, ma a una condizione, come scrive lo stesso insegnante Pennac: “la presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia”. [7]
Negli anni della scuola si può costruire quel ponte tra generazioni di cui si parlava, se la passione dell’insegnante è, almeno in parte, contagiosa, se si costruisce un rapporto di fiducia con gli studenti e se si sa trasferire consapevolezza riguardo al percorso dell’apprendimento che la classe sta vivendo insieme e individualmente. Questi aspetti, in cui ho creduto negli anni del mio insegnamento, trovano una conferma importante nelle parole degli studenti raccolte nelle interviste pubblicate recentemente in uno studio realizzato da insegnanti attivi nel trentennio di sperimentazione dell’Istituto L. Cobianchi di Verbania. Ne riporto alcune:
Disagio e mondo giovanile non coincidono necessariamente: l’aiuto che le vecchie generazioni possono fornire è quello di offrire occasioni di conoscenza e libertà di espressione per nuovi progetti, per inventare e costruire una realtà diversa da quella ricevuta. Ogni nuova generazione si è data nuovi strumenti di interpretazione della realtà e ha costruito un mondo che le precedenti non sapevano immaginare. È la morale che Michele Serra pone in conclusione del suo romanzo Gli sdraiati: un padre, ormai deluso e scoraggiato dal tentativo che credeva vano di scorgere nel figlio i frutti della sua educazione, nel cercare somiglianza nei suoi comportamenti, insiste, nel corso del racconto, a invitarlo a scalare insieme una montagna come aveva fatto lui, quando era un bambino, con suo padre. Probabilmente esasperato dall’insistenza del padre, il figlio accetta e partono insieme verso la vetta, ma quando il padre, impegnato nella fatica della salita si volta, non vede il ragazzo dietro di lui: si sente chiamare e lo vede. “Eri in alto, molto più in alto di me, quasi un chilometro avanti… Mi avevi sorpassato e seminato senza che me ne rendessi conto, immerso com’ero nei miei rendiconti con i massimi sistemi […] Salivi veloce, con un passo elastico, che esprimeva destrezza, sicurezza, forse felicità, quella felicità che, solo a dirla, in relazione a te e agli altri della tua tribù, le lacrime mi velano gli occhi.”[9]
I nostri studenti, che aspirano, come ogni giovane, a soddisfare quel diritto alla felicità e al successo cui la società illude fin da bambini, possono ancora trovare nella scuola gli strumenti per crescere, anche attraverso l’educazione all’impegno, alla condivisione, alla passione, a volte purtroppo anche alla sconfitta ma alzando lo sguardo oltre gli steccati della tradizione, come solo loro possono fare.
Nel tempo della scuola del merito, a una scuola che punta più sulla trasmissione dei contenuti e sulla valutazione degli apprendimenti, preferisco una scuola della I care, dove ognuno faccia del proprio meglio per “fare in modo che ad ogni lezione scocchi l’ora del risveglio”[10]
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