Di questi tempi, a proposito di immigrazione, il rumore generato da una politica che affronta la questione in una logica emergenziale disturba una comunicazione corretta e distoglie dal desiderio di comprendere e affrontare i cambiamenti necessari, direi inevitabili, che essa genera in ambito sociale. Il mio punto di vista è quello di chi entra in contatto con persone adulte migranti arrivate di recente in Italia e che, non conoscendo la lingua e la cultura italiana, devono affrontare un impegnativo processo di integrazione, non solo linguistica. Processo che dovrebbe svilupparsi in chiave sistemica, per essere realmente efficace, con la costituzione di poli formativi diffusi sul territorio che forniscano corsi di lingua e cultura italiana, investendo sul futuro di ogni comunità con stanziamento di fondi adeguati. Purtroppo, non è questa la prospettiva che si intravede, né nelle passate, né nelle attuali scelte di governo.
Parlare di comunicazione efficace tra e con persone provenienti da paesi lontani implica che, nel considerare i suoi principi generali individuati dai titolati studiosi dell’argomento, si debbano privilegiare aspetti spesso considerati a margine, ma che in un contesto eterogeneo quale può essere una classe di studenti di recente immigrazione, rivestono un’importanza non trascurabile: background culturale/identità, ascolto/prossimità.
In ogni classe e in modo più evidente in una classe multiculturale è fondamentale ricercare e conoscere gli elementi e gli strumenti comuni da cui partire per avviare un dialogo tra e con gli studenti, al di là dell’aspetto più evidente delle difficoltà che emergono sul piano della comunicazione linguistica. E non penso solo all’incontro studenti italiani – studenti internazionali all’interno delle nostre scuole, ma anche alle relazioni interculturali tra persone adulte che seguono corsi di italiano come seconda lingua: la logica e il linguaggio, fondamentali per ogni comunicazione, devono essere tarati su elementi comuni e comprensibili. Purtroppo spesso, nelle nostre scuole, ci si aspetta che attraverso un processo di assimilazione lo studente neo-arrivato magicamente acquisisca lingua, cultura e, addirittura, modi di pensare comuni. In una classe spesso si tende a trascurare ciò che caratterizza le varie identità linguistiche e culturali degli studenti che provengono da altri paesi e, con l’etichetta “studente straniero”, in un’ottica semplificatrice di processi complessi, si omogeneizza in termini esclusivamente negativi un universo di belle differenze: le etichette non italofono, non originario del nostro paese, evidenziano quello che lo studente non è e quello che non ha in comune con ‘noi’. Così, spesso inconsapevolmente, si raggruppano individui dalle provenienze disparate in un amalgama indifferenziato, in nome di una presunta universalità della cultura, che è poi la nostra. Si opera quindi un appiattimento delle identità e delle culture dei paesi di provenienza degli studenti internazionali, che invece sono portatori di una loro storia, di radici culturali, linguistiche, perfino di un’idea di tempo e di spazio per noi ignote.
Al massimo – e, sia chiaro, non mi riferisco alle scuole, che da sempre hanno accolto gli studenti senza tener conto di tali distinguo – la differenziazione può servire a definirne lo status giuridico: extracomunitari, richiedenti asilo, rifugiati, legalmente soggiornanti, migranti economici, migranti politici, clandestini, nai, che vorrebbe dire “nuovi arrivati in Italia”…
Come sostiene M. Aime[1], “Ognuno di noi è portatore di un mazzo di identità da cui, di volta in volta, per scelta o per costrizione, pesca la carta che ritiene più adatta, o la sola che gli è consentito giocare”: se nessuna carta può essere mostrata, si acuisce il senso di frustrazione e la conseguente svalorizzazione della persona e della cultura di appartenenza.
Nella mia esperienza la comunicazione diventa efficace e consente di dare espressione alle diverse identità quando il gruppo è di dimensioni ridotte, quando la comunicazione tra partecipanti è simmetrica e quando ognuno si sente libero di esporsi con una sua storia personale. A queste condizioni possono emergere le caratteristiche individuali e si può stabilire un’autentica comunicazione: a partire da una gestualità spontanea, all’enunciazione di gusti musicali, cinematografici o alla narrazione di storie e miti, alle preferenze nelle pratiche sportive, via via toccando ambiti più personali, come le relazioni familiari e amicali, fino a toccare la sfera dell’affettività e addirittura del divino. In questi casi si può parlare di comunicazione creativa ed efficace. Ho avuto la fortuna di sperimentarla però solo in corsi di italiano per adulti o in laboratori di piccole dimensioni per ragazzi e ragazze nelle nostre scuole superiori. Perché queste condizioni non sono realizzabili facilmente in una classe di adolescenti, dove le diversità legate a modelli culturali tanto lontani da quelli della maggioranza vanno nascoste. Spesso, inoltre, il disinteresse per il percorso che ha portato in Italia lo studente neoarrivato e per il suo background culturale determina una bassa autostima e talvolta il rifiuto di apprendere la nostra lingua e di inserirsi nel gruppo di compagni; così, può capitare che ragazzi che erano campioni in una squadra di cricket a Sri Lanka arranchino calciando un pallone a Verbania o non aprano bocca in classe per periodi anche di mesi.
Il nostro pensiero si costruisce negli anni, in una stratificazione di esperienze, attraverso parole che articolano idee e che impariamo a padroneggiare con sempre maggior esperienza. Un adulto che arriva in Italia come profugo deve in tempi brevi acquisire un codice espressivo che in molti casi si riferisce a concetti alieni dalla sua esperienza di vita. Se lo studente minorenne che non conosce la nostra lingua e che si trova a frequentare una scuola può acquisire strumenti comunicativi in un percorso pluriennale, utili ad affrontare discipline scolastiche nuove – e questa è comunque, come si è detto, un’esperienza che viene vissuta spesso con un senso di frustrazione per la difficoltà dell’impresa – gli adulti che non hanno avuto la possibilità di frequentare scuole nei loro paesi incontrano difficoltà ancora maggiori nel seguire corsi di alfabetizzazione. Spesso, chi non ha seguito nel proprio paese un iter scolastico ed è arrivato in Italia dopo un viaggio drammatico, durato anche anni, ha fretta di iniziare un percorso lavorativo per sostenere la propria famiglia lontana che ha investito su di lui e stenta a comprenderne l’utilità: la scuola è per i bambini, che ci fa un adulto a scuola invece di lavorare?
Questa purtroppo è la premessa da cui partire e in queste condizioni il compito dell’insegnante è quello di accogliere e comprendere i diversi bisogni legati ai percorsi di vita degli studenti e solo dopo averne conosciuta una parte, condividendone le parole faticose con cui possono essere resi, rendere fertile il dialogo dell’apprendimento. Se, durante una lezione semplificata di storia in un corso per adulti di recente immigrazione, parlando delle condizioni degli operai e delle operaie durante la rivoluzione industriale, del lavoro precario e sottopagato di minori e ragazze nel secolo scorso, una studentessa ivoriana nota: “Ma è quello che succede a noi oggi: quando impariamo un lavoro, veniamo licenziati e viene assunto un nuovo tirocinante!”, la comunicazione è avvenuta, la nozione storica è diventata viva e diventa motivo di riflessione sul nostro presente. Allora c’è un motivo in più per approfondirla.
E, ricordo, la migliore definizione di “corruzione” mi è stata data da un ragazzo maliano, che ha visto la guerra civile devastare il suo paese: “La corruzione è derubare il paese”, ha spiegato ai suoi compagni in classe. Come si potrebbe, con maggior efficacia, denunciare questo delitto? è evidente che le parole non sono neutre, ma trasmettono tutta l’ingiustizia della storia impressa negli occhi e sulla pelle di chi sta diventando uno studente consapevole. E in molti altri casi il racconto dei paesaggi vivi nei ricordi degli studenti migranti ha riempito di colore le lezioni: abbiamo visualizzato e descritto le immagini delle montagne bianche dei fiocchi di cotone raccolti dalle donne africane, ho imparato che la cernita delle arachidi migliori viene fatta nel centro di un villaggio maliano da donne e bambini e ho ascoltato le accalorate discussioni sull’impiego dei frutti delle palme, diversi da stato a stato africano.
Da questa interazione, dalla volontà di confrontarsi sul proprio vissuto, può nascere il gusto della comunicazione tra pari, della conoscenza dell’altro, premessa per quello che Raimon Panikkar definisce dialogo intraculturale, in cui si disarmano le voci conflittuali delle differenze. In questo periodo in particolare, quando si agitano spauracchi di “sostituzione etnica”, come si può evitare che i concetti di cultura e di identità possano diventare elementi di separazione, da brandire come armi?
È solo quando i miei studenti italiani hanno iniziato a rapportarsi con i loro compagni venuti da lontano che si sono resi conto di avere un’identità nazionale. E proprio dal confronto con le aspettative, i desideri o i bisogni dell’altro è emersa una comune appartenenza al mondo degli adolescenti: non una omogeneizzazione che cancella le differenze, ma una conoscenza fatta di rispetto, in una visione del mondo nuova, plurale. Identità e culture si sono rimodellate. Si è compreso con naturalezza che la cultura non è un’unità compatta, con confini precisi, ma va vista in modo dinamico, perché fatta di contatti e cambiamenti, a maggior ragione in un mondo interconnesso: si sono sperimentati diversi modi di vedere la realtà e di vivere, seguendo criteri di verità diversi.
In questo processo diventa naturalmente anche fondamentale garantire a tutti gli strumenti indispensabili per lo sviluppo delle competenze linguistiche perché esista comunicazione. Riprendo da un datato testo di Danilo Dolci dal titolo eloquente Dal trasmettere al comunicare: “Il comunicare è condizione per lo sviluppo del linguaggio, della crescita personale e collettiva…. L’aspetto creativo del linguaggio è la capacità di tutte le persone di produrre discorsi adatti alla situazione, anche se magari insolita, e di capire questi discorsi quando gli altri fanno la stessa cosa…Per certi aspetti fondamentali, non si apprende una lingua; piuttosto, la grammatica cresce nella mente. Quando il cuore o il sistema visivo, oppure altri organi del corpo, si sviluppano nella loro forma matura, si parla di crescita piuttosto che di apprendimento.“[2]
A questo proposito, ancora riguardo alla questione dell’identità, vorrei aggiungere un ultimo aspetto, quello del plurilinguismo. Molti dei partecipanti ai corsi hanno repertori plurilingue appresi oralmente nel luogo di provenienza in famiglia, in percorsi scolastici o nella loro condizione di migranti in diversi paesi prima di arrivare in Italia. Questi però spesso vengono passati sotto silenzio, non dichiarati tra le lingue conosciute, quasi fossero lingue di serie B. È la lingua parlata, nel villaggio, nelle città, ma le grammatiche bambara, peul o dagomba non si trovano sugli scaffali delle biblioteche, e allora si tace una competenza posseduta… Sono invece preziosi aiuti per due aspetti: innanzitutto diventano utilizzabili come lingue-ponte in classe, in secondo luogo sarebbero strumenti utili per accrescere in loro consapevolezza e autostima, con relativa valorizzazione della cultura originaria, spendibili nella nuova condizione di profughi. Succede anche che i bimbi al momento dell’ingresso in una scuola in Italia imparino l’italiano più velocemente delle mamme, spesso non-lavoratrici e con poche occasioni di parlare italiano e che i piccoli si rifiutino di conseguenza di parlare nella lingua madre anche in casa. Mi è capitato, durante una lezione, di dover spiegare a una mamma le parole che la bimba di tre anni usava di ritorno dalla scuola materna, escludendola di fatto dalla comunicazione: quando è la figlia che promuove socialmente la madre, l’ordine naturale dei rapporti si deforma. In quel caso, non c’è trasmissione dell’identità culturale materna, la lingua-madre perde valore e la comunicazione diventa fonte di sofferenza.
È la condivisione e la negoziazione dei concetti all’interno del gruppo che consente di comunicare; ma, al di fuori dei diversi corsi di italiano come seconda lingua non esiste uno spazio sicuro in cui sia facile per i partecipanti esprimere se stessi: le occasioni di incontro con ragazzi italiani sono scarse e in ambito lavorativo è evidente che non si offrano spazi a chi non comprende e non sa farsi comprendere.
Allora può avvenire, come purtroppo capita spesso, che il migrante sia visto come un corpo che lavora, funzionale per certi aspetti alla società, ma vissuto come minaccia o, nel migliore dei casi, come entità invisibile in un mondo, per usare un’espressione di Zygmunt Bauman, popolato da tribù, cioè da gruppi di individui, monadi che si riconoscono più o meno fanaticamente in valori nazionali, nei termini conflittuali del ‘noi’ opposto a ‘loro’, E qui entra in gioco la seconda coppia di fattori, ascolto e prossimità.
Quando manca la prossimità, ovvero la conoscenza dell’altro scaturita dal contatto personale, si possono generare fantasmi e stereotipi minacciosi.
Le lingue, come aveva ben visto Roman Jakobson, in realtà dipendono meno dal sistema grammaticale, molto di più dalle esperienze non linguistiche condivise tra gli esseri umani, aggiungerei a patto che possano dialogare e confrontarsi, anche secondo codici soggettivi, in una prospettiva di ascolto reciproco e di condivisione. Un ascolto attento ed empatico, lo sappiamo, rende la comunicazione autentica e rassicura l’emittente, rendendolo consapevole che la sua fatica di esprimersi produce vicinanza. L’ascolto attento di narrazioni di storie personali implica la capacità di cogliere tutti i segnali, anche non verbali, che servono a connotare una fisionomia più precisa e ricca per idee e sensazioni condivise in classe, anche se spesso espresse con termini approssimativi.
Questa difficoltà è ben descritta da Agota Kristof quando, ricordando il suo iniziale spaesamento di profuga ungherese in Svizzera, non sapeva trovare le parole per dialogare con un conoscente autoctono: “Come spiegargli, senza offenderlo, e con le poche parole che so di francese, che il suo bel paese non è altro che un deserto, per noi rifugiati, un deserto che dobbiamo attraversare per giungere a quella che chiamano l’integrazione, l’assimilazione.“[3]
Ma quando le scelte politiche mirano a rendere invisibili le persone emigrate dal loro paese, non istituendo percorsi di integrazione sistematici e, ancor più colpevolmente, agitando spauracchi di invasioni o di sostituzioni etniche, riducendo le persone a dati statistici senza nome né volto, si assiste ad un processo di separazione sociale che rende lo straniero un anonimo esemplare appartenente a una categoria astratta e stereotipata. E sappiamo che responsabilità e solidarietà, fonti di ogni etica, sono legate tra loro e che si assiste a una riduzione della solidarietà in misura inversamente proporzionale allo sviluppo tecnico-economico; a questo si aggiunga che in particolare, riprendendo le parole di Bauman, “la responsabilità viene messa a tacere quando si erode la prossimità; essa può alla fine trasformarsi in avversione una volta che i soggetti umani a noi vicini siano trasformati in ‘altri’” [4].
Nel nostro mondo interconnesso assistiamo a un paradosso: le persone immigrate con i cellulari comunicano con il loro mondo di provenienza in una prossimità digitale che si rivela più stretta di quella interpersonale, che potrebbe avere luogo con i propri vicini di casa.
Mi chiedo se nelle nostre città saremo capaci di creare nuove occasioni che aprano all’accoglienza, se sapremo condividere spazi e attività adatti a comunicare con persone giunte in Italia da paesi lontani, senza muri invisibili fatti di diffidenza.
[1] Marco Aime, Cultura, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, p. 81.
[2] Danilo Dolci, Dal trasmettere al comunicare. Non esiste comunicazione senza reciproco adattamento creativo, 4 ed., Milano, Edizioni Sonda, 2021. La prima edizione è del 1988.
[3] Agota Kristof, L’analfabeta, Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2005, p. 41.
[4] La citazione è tratta da Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, Bologna, il Mulino, 2010, p.250; ho ripreso una considerazione tratta dalla conclusione del saggio, che studia un comportamento sociale, particolarmente devastante nell’Olocausto, che permane ancora pericolosamente attuale in alcuni tratti delle società burocratizzate di oggi.
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