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La complessa costruzione di una nuova identità territoriale per le donne e gli uomini di montagna nei primi decenni del terzo millennio
La nostra terra è straordinaria: un battito d’ali separa l’armonia del Lago Maggiore dalle maestosità del Monte Rosa, la seconda montagna d’Europa. Le sue montagne sono uno scrigno di tesori naturali dove coesistono in armonia uomini, boschi, animali. È una terra antica che oggi ha bisogno di futuro.
Dopo i secoli incerti e tormentati dell’Alto Medioevo, quando il flagello di epidemie, carestie ed invasioni (ungari, saraceni, normanni) si abbinò ad un periodo di clima freddo, le Alpi e l’Europa si “aprirono”. Le alte montagne non furono più barriera tra il Mediterraneo e l’Europa centrale, ma un corridoio aperto segnato dalle grandi strade carovaniere, percorse da uomini, merci, idee. In questo periodo, che gli storici definiscono di “Alpi aperte”, l’optimum climatico del XIII – XIV secolo permise, con temperature elevate e un forte regresso glaciale, l’innalzamento delle colture e degli insediamenti stabili. Fu in questo periodo di incremento demografico che si costituirono le comunità alpine. Il superamento della servitù della gleba con l’introduzione di nuovi istituti giuridici, come quello dell’affitto ereditario, permisero alle Alpi di offrire agli uomini nuovi spazi dove vivere meglio (le libertà nate “nella foresta”).
Poi le Alpi si chiusero. La piccola età glaciale dal XVI al XIX secolo, con il raffreddamento repentino del clima e l’abbassamento dei limiti di coltivazione, portò all’esaurimento della grande spinta espansiva che aveva “addomesticato” la montagna con il taglio dei boschi e la costruzione degli alpeggi, lo spietramento delle praterie e l’utilizzo dei pascoli alti. In questo periodo di “Alpi chiuse” iniziò l’abbandono della montagna con le grandi migrazioni stagionali e permanenti. Le montagne, secondo la fortunata espressione dello storico francese Jaques Le Goff, divennero “fabbriche di uomini” per alimentare le botteghe e gli opifici delle città di pianura. Questa chiusura delle Alpi fu anche culturale: i baluardi dei Sacri Monti contro le “nuove idee” del Protestantesimo, la caccia alle streghe e agli untori portatori di peste. Furono secoli “bui”, quando vivere in montagna era sempre più difficile e faticoso.
Poi con l’Ottocento le Alpi tornarono ad aprirsi: il clima migliorò, i ghiacciai iniziarono a ritirarsi, gli illuministi (ri)scoprirono le Alpi leggendo il grande libro scritto da madre natura, la rivoluzione industriale permise la nascita del turismo, i gentleman inglesi trasformarono vette e pareti nel playground of Europe. Nella seconda metà del Novecento le Alpi cambiarono ancora, ridefinendo a fatica una loro collocazione nella nuova società europea. Un processo che è ancora in corso. Il turismo di massa cambiò radicalmente la fisionomia dei villaggi e la cultura degli uomini, l’antica povertà divenne moderno benessere, la fatica del lavoro sugli alpeggi si trasformò in un ricordo sempre più sbiadito, l’affermarsi dell’escursionismo diffuso cambiò la fruizione della montagna. Con i primi decenni del Duemila, con la maturità di globalizzazione e digitalizzazione, le Alpi, come tutti i grandi sistemi montuosi del pianeta, devono ricollocarsi nella contemporaneità. Possiedono un capitale assoluto: l’ambiente naturale. Una natura sempre più fragile in tempi di cambiamenti climatici. Una seconda ricchezza è la “buona cultura” delle Alpi (solidarietà, rispetto, apertura). Anche la pandemia di Covid 19, come ogni evento esterno improvviso e devastante, può aiutarci a diventare migliori. A questo “ripensamento culturale” delle Alpi devono partecipare tutti, soprattutto i nostri giovani.
In questo quadro diventa centrale la definizione di una nuova identità territoriale per le donne e gli uomini delle “terre alte”: È un percorso in salita, come sa chi è abituato a percorrere i sentieri alpini dell’Ossola. Con inciampi e affaticamenti.
La nostra Provincia, dopo trent’anni, rimane solo il risultato di accorpamenti amministrativi, non culturali. I verbanesi continuano a guardare con diffidenza gli ossolani e i cusiani. La cosa è reciproca.
Credo che la cosa non riguardi solo noi, ma interessi tutte le popolazioni dell’arco alpino.
L’inverno è alle porte. Sarà di buona neve? Chi vive di turismo, scruta il cielo e spera nella benevolenza delle nuvole. Si può sorridere, ma pare che l’economia delle comunità turistiche alpine oggi dipenda dagli accidenti della meteorologia: un’annata cattiva dipende dalle precipitazioni atmosferiche (nevica poco in inverno o piove troppo in estate). Oggi, come mille anni fa. E’ tempo di àuguri e di indovini. E’ un paradosso delle Alpi ultramoderne.
Su questi temi è illuminante il denso libro di Annibale Salsa (Il tramonto delle identità tradizionali, 2007). Un libro di denuncia, ma soprattutto di speranza. L’autore analizza l’evoluzione della società alpina negli ultimi secoli e vede il futuro delle nostre comunità stretto tra due grandi pericoli: la globalizzazione dell’economia e la chiusura esasperata nel localismo. Entrambi porterebbero all’annientamento delle comunità delle Alpi, schiacciate tra omologazione a modelli di vita metropolitani e rifugio suicida nei particolarismi etnici o nel folklore. C’è tuttavia una strada per il futuro, la ricerca di una “terza via”. Protagoniste di questa ricerca saranno le giovani generazioni. I nuovi “figli delle Alpi”. Saranno i giovani, aperti al mondo ma al contempo saldamente ancorati alle radici profonde della loro terra, i protagonisti di una rinascita del mondo alpino. Un mondo che, agli inizi del terzo millennio, deve conservare un proprio ruolo autonomo e unico in Europa: come riserva di acqua potabile conservata in ghiacciai sempre più miseri, come ricchezza di un ambiente che ha conservato un alto grado di naturalità, come luogo dove (ri)trovare tempi lenti e umanità autentica. Le Alpi come uno spazio reale dove fuggire dal virtuale.
Un’ancora ci viene da Papa Francesco (Laudato si’, V, 173): “Urgono accordi internazionali che si realizzino, considerata la scarsa capacità delle istanze locali di intervenire in modo efficace.” Questa sferzata vigorosa nobilita le politiche europee di tutela della natura (le preziose e incomprese aree SIC e ZPS) e condanna le visioni locali che considerano le Alpi un salvadanaio da cui prendere soldi. Il valore della montagna è la natura, non il luna park.
La speranza delle Alpi sono i “nuovi montanari”: i nostri figli, non necessariamente coloro che vengono dalle città. Essi sfidano le leggi della “gravità sociale”, perché salgono in alto contro le leggi della fisica e dell’economia. I nostri monti non come un castigo, ma come luogo di libertà e di felicità. Una “casa comune” da costruire con altri uomini e dove convivere con gli animali selvatici, gli alberi della foresta, i fiori delle praterie. Cosa altro possiamo offrire di più bello ai nostri figli?
Luca Mercalli, uomo di scienza e di clima, ritiene che nel 2040 (dopodomani) Torino e Milano saranno come Calcutta: in estate città torride e invivibili. In quelle città rimarranno i poveri sempre più arrabbiati, mentre i ricchi migreranno sulle Alpi a cercare un’illusione di refrigerio. Non Alpi a fotocopia di città, ma luoghi di scoperta di una naturalità perduta e di una salubrità ambientale sempre più impossibile nelle aree metropolitane. E’ uno scenario eticamente triste che ci parla di singolari “migrazioni interne” in epoca di migrazioni globali.
Qualcuno sostiene che il tessuto sociale delle Alpi sia fragile e non abbia un futuro (lo si diceva quarant’anni fa ed è un ritornello che non tiene conto di quanto il mondo sia cambiato). Le Alpi non sono più quelle degli anni ’50 del Novecento, raccontate con orgoglio e dignità da Nuto Revelli e Plinio Martini oppure cantate dalla memoria sofferta di Cesare Pavese, non sono più terre povere e desolate, bensì luoghi di un benessere individuale invidiato nelle grandi città.
Come declinare oggi questa presunta contrapposizione? Dare una risposta, credo sia la sfida grande per le giovani generazioni. Unire la consapevolezza del bene sommo dell’ambiente alpino (una naturalità da non svendere, una ricchezza assoluta da difendere) con la possibilità concreta di nuove professioni che abbiano nello sviluppo sostenibile (sentieri e agriturismi invece di alberghi in cima alle montagne) occasioni di economia concreta e realizzabile. Forse in montagna non si diventa ricchi, ma si può vivere bene.
Qui entra prepotente il grande tema dei “nuovi montanari”. Loro non sono solo chi, per scelta di qualità di vita abbandona la città per la semplicità e la precarietà della montagna, ma soprattutto i nostri figli che in montagna sono nati. Sono loro che devono guardare ai monti con occhi diversi dai loro genitori. Sono loro che devono sapere l’inglese certificato, possedere salde competenze informatiche, essere “aperti al mondo”, imparare da chi ha fatto esperienze innovative e riuscite. In poche parole: “rubare il mestiere”. Le Alpi si stanno qualificando sempre più come “luoghi del buon vivere”. Operiamo affinché lo siano anche domani.
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