L’identità è un fiore delicato, spesso urticante, ovunque lo si vada a cogliere. Che riguardi il singolo soggetto, la persona, oppure gruppi, i fedeli di una chiesa, i tifosi di una squadra, o gli abitanti di un territorio sempre si presenta come questione ostica, complessa, controversa. Alcuni articoli ne danno testimonianza anche in queste pagine.
Più caustica si fa la questione quando cresce e ingrassa all’ombra di un campanile e peggio ancora diviene quando i campanili sono due e si fronteggiano su una linea di confine comune.
Verbania non nacque, come Afrodite, dalla schiuma del lago (si, va be’, Lei dal mare); il suo travaglio fu meno leggiadro e di un gran pezzo più lungo e impegnativo. Si è cominciato a prendere in considerazione l’ipotesi della fusione dei Comuni della sponda occidentale del medio Verbano nell’ultimo decennio del XIX secolo; se n’è parlato e per lo più discusso, di rado pacatamente, per mezzo secolo; è stato oggetto di animate controversie, innanzi tutto tra i cittadini dei borghi interessati, in primo luogo Intra e Pallanza, poi, al loro interno, tra le avverse fazioni di chi auspicava l’unione e chi non voleva proprio sentirne parlare.
Certo il pregresso non aiutava il pacato discettare. Dei rapporti tra i due centri maggiori si hanno notizie fin dai più antichi documenti e sono, per lo più, controversie e contese, dispute e liti; tensioni sociali spesso incandescenti, non semplici antagonismi tra vicini. Due bisbetiche sorelle sedute sullo stesso piccolo triangolo di terra, spalla a spalla, ciascuna a presidiare uno dei due rami del lago: Intra quello ticinese con i traffici che si dipanavano sul lungo ramo maggiore (direzione nord-sud), dal Centro Europa alla pianura padana e viceversa; Pallanza quello del golfo Borromeo che guarda l’entroterra ossolano; entrambe beneficiate dagli intensi traffici commerciali che i grandi valichi alpini e la rete idrica di trasporto rappresentata dal Lago Maggiore dal Ticino e dal Naviglio Grande assicuravano nei lunghi secoli in cui i trasporti via terra erano difficoltosi, lenti e insicuri.
È ben vero che il miglior nemico è tradizionalmente proprio il vicino, ma perché quel guardarsi in cagnesco quando ciascuno godeva degli stessi benefici? Si, Intra, affacciata sulla tratta principale del lago, godeva di varietà e volumi commerciali maggiori, ma Pallanza si era a lungo assicurata il monopolio di alcuni mercati strategici, come quelli dei grani e dei lapidei.
Probabilmente le ragioni dell’animosità vanno cercate altrove e, innanzi tutto, in una condizione naturale da cui discendono poi conseguenze diversamente impattanti sullo sviluppo dei due nuclei urbani: nella sostanziale differenza morfologica dei territori dei due paesi, entrambi affacciati sul Lago Maggiore, uno, Pallanza, ampio ma privo di ulteriori corsi d’acqua nei pressi dell’abitato[1], l’altro, Intra, circoscritta e compressa tra lago e ben due torrenti. Due situazioni che costituiscono il fondamento concreto della profonda diversificazione del percorso storico dei due borghi, che determina le differenze dei potenziali di sviluppo economico, di composizione sociale e di cultura collettiva dei due centri.
La forza motrice originata dal moto dell’acqua è stata per lunghi secoli l’unica energia disponibile oltre quella umana e quella animale. Lo sviluppo economico, dalla bottega artigiana alla manifattura alla fabbrica, fin ben dentro il XIX secolo, è stato assicurato dall’energia idrica e per averla occorreva disporre di corsi d’acqua vicini, fiumi e torrenti, dai quali derivare canalizzazioni (le rogge) per il trasporto fin dove serviva. È dal Medioevo che questo processo era avviato nel borgo intrese, che vedeva, perciò, progressivamente montare, a fianco dei vasti e sostanziosi interessi commerciali, un comparto produttivo di beni materiali piuttosto diversificato, che l’impetuosa crescita ottocentesca trasformerà in uno dei primi casi di sviluppo industriale italiano[2].
Una simile base produttiva genera mutamenti profondi nella composizione sociale del paese: emergono e si affermano, anche negli ordinamenti pubblici, interessi imprenditoriali manifatturieri e industriali; cresce e si estende la componente salariata della popolazione; il fabbisogno di manodopera richiama popolazione dall’entroterra, dalle valli e poi anche da altre aree del Paese, quindi la popolazione residente aumenta[3].
Dove non ci sono corsi d’acqua naturali, questo tipo di sviluppo non fu per lungo tempo possibile e questo fu il destino di Pallanza, che agli interessi commerciali poté affiancare per lungo tempo solo piccole attività produttive, ma che sviluppò poi una rilevanza dei settori politico, amministrativo e giurisdizionale, nonché delle connesse professioni borghesi e, in seguito, di rinomato centro di villeggiatura. Conseguentemente, la composizione sociale non poté che andare progressivamente confermandosi come radicalmente diversa da quella intrese: due società cittadine contigue, accentuatamente diverse, con interessi sostanzialmente differenti, per molti versi confliggenti, per altri interdipendenti. E pure storie politiche a lungo divergenti: quella di Pallanza, presto riscattata dai vincoli feudali e orgogliosamente libero borgo del Ducato Milanese (cui entrambe le sponde del lago appartenevano); quella di Intra soggetta al medesimo dominio, ma a lungo soggiacente all’infeudamento dei Borromeo[4]. Stupisce ancora la difficoltà di intendersi?
Pure la topografia giocava contro. Se Pallanza disponeva di un vasto territorio non urbanizzato, il territorio comunale intrese era esiguo e stretto tra i due torrenti: al di là del San Bernardino era già Pallanza, al di là del San Giovanni era terra di Arizzano Inferiore; poco a monte dell’attuale cimitero intrese era territorio di Trobaso. Impossibile fisicamente farci stare gli insediamenti che lo sviluppo manifatturiero e industriale richiedeva; inevitabile espandersi oltre, debordare. Per tutto l’Ottocento fu tutto un lievitare di imprese con ragione sociale intrese e fabbriche sparse nei comuni limitrofi (e non solo). Poco male laddove i confini intercomunali erano esattamente definiti, ma altra cosa quando a far da confine è un torrente come il San Bernardino che finché scorre costretto tra le strette di una valle fa giudizio, ma appena esce nella sua piana alluvionale si sbizzarrisce, di tanto in tanto cambia strada, modificando il confine in quel tratto sensibile di territorio in parte intrese in parte pallanzese in cui si espandono gli opifici intresi[5].
Un confine ballerino generava, inevitabilmente, occasioni per controversie fatte di alterchi e liti nelle pubbliche piazze, di sedute infuocate nei consigli comunali con sprechi di grida, ordinanze, carte bollate e, tanto per tenersi in esercizio, con sassaiole tra le opposte sponde, incursioni e scontri cruenti che periodicamente si riaccendevano, si infiammavano, poi si placavano in attesa della prossima occasione[6] e, per tenersi in allenamento, si poteva litigare per la gestione del servizio di traghetto, quando il ponte ancora non c’era, poi per benefici e spese del ponte, quando ci fu. “Solo un confine geografico? (…) O non forse e anche e soprattutto simbolo di una divisione della quale si hanno tracce, presenze nella storia secolare delle due città?”[7]
Non bastavano le ragioni reali e concrete per questionare, ci si aggrappava anche a quelle nominali, come quando comparve e iniziò a circolare una edizione del 1605 degli Statuta burgi Intri, Pallantia et Vallis Intraschae (importante atto normativo promulgato nel 1393 da Gian Galeazzo Visconti per regolamentare i rapporti sociali ed economici di questo territorio, per la cui interpretazione si era sempre litigato) in cui la disposizione dei nomi dei due centri maggiori era stata surrettiziamente invertita defraudando Intra, il borgo maggiore, a favore di Pallanza. Apriti cielo!
Quando nel 1797, con l’istituzione della napoleonica Repubblica Cisalpina, furono aboliti i feudi, a Intra fu attribuita, per la crescente rilevanza economica, una raffica di pubblici uffici[8], cui si aggiunse il tribunale di prima istanza quando quella Repubblica divenne Regno d’Italia nel 1806. Un declassamento offensivo della storica supremazia amministrativa e giurisdizionale pallanzese[9], che tante rabbiose lacrime fece spargere, ma che prontamente la Restaurazione si incaricò di asciugare.
Non potevano certo mancare dispute religiose, non tanto per questioni di fede, ‘ché questa non era terra di scismi ed eresie’, ma in materia ecclesiastica e d’esercizio del culto. Quella di Intra era la pieve matrice di tutte le chiese del territorio tra Fondotoce, Cannero e la Valle Intrasca, ma Pallanza, ovviamente, contestava accampando un antico primato che originava dall’Isola di Sant’Angelo (l’odierno Isolino San Giovanni). In queste materie il campanilismo assumeva un significato letterale, quindi non si risparmiarono controversie; impossibile star dietro a tutte.
Quando, era il XVII secolo, si vollero celebrare le esequie di un notabile intrese nella chiesa di San Bernardino, in terra pallanzese, il sindaco di Pallanza si presentò con una piccola folla armata di picche e archibugi per impedire l’evento. Ne derivò una dura colluttazione con il folto seguito intrese che costrinse i pallanzesi alla ritirata. La funzione si celebrò rapidamente prima che i contestatori tornassero alla carica con rinforzi nel frattempo sopraggiunti. A lungo seguirono ricorsi alle autorità per far valere i diritti che gli uni e gli altri accampavano su quella chiesa.
Quello tra Intra e Pallanza, anche se il principale, non era però il solo fronte aperto in materia di controversie di campanile. Proverbiale fu il caso della chiesa di Madonna di Campagna, in epoca medievale denominata di Santa Maria de Egro, che fu oggetto di ripetute e prolungate dispute tra Pallanza e Suna. Isolata tra campi e pascoli, distante dai centri abitati, vi facevano capo gli abitanti della Villa di Pallanza (la parte collinare dell’abitato) e quelli di Suna, a causa dell’inadeguatezza dei rispettivi centri di culto. La convivenza non fu mai facile, le liti frequenti. Inoltre, a rafforzare lo scontento, le funzioni nell’originaria chiesetta (la chiesa odierna fu edificata negli anni Venti del XVI secolo) erano esercitate da canonici di Intra, ciò comportava per i fedeli l’incomodo e il cruccio di dipendere dalla pieve di San Vittore per tutti gli atti di diritto ecclesiastico (battesimi, matrimoni).
Finalmente, dal 1572 la nuova chiesa fu resa autonoma, ma divisa in due porzioni con due diversi curati, uno per i fedeli di Suna, l’altro per i pallanzesi della Villa e fu stabilita un’alternanza settimanale delle frequenze; ma anche questa regolamentazione non risolse le controversie, continuarono dissidi e scontri tali “da recare ben spesso desolazione e lutto nelle famiglie”, come l’aggressione di una banda di sunesi alla funzione per le feste dell’Assunta del 1602, alla quale seguì una scorribanda degli stessi aggressori nell’abitato di Pallanza, cui “quei di Pallanza risposero con più violente rappresaglie”, e “continuarono tuttavia quelle discordie per ben tre secoli (…) bastando il più innocuo pretesto a fomentarle”[10].
Non mancarono, soprattutto tra Intra e Pallanza altre ragioni per controversie e liti. Questionarono per il mercato, perché l’accordo di tenerli a sabati alternati venne più volte violato da Intra che reputava la regola inadeguata alle proprie esigenze commerciali. Poi, anche per la costruzione della caserma intrese in cui alloggiare un reparto alpino, il Battaglione “Intra”, che faceva ombra alla vecchia caserma pallanzese ancora priva di un’unità militare intitolata alla città.
Si litigò furiosamente, infine, e chiudiamola qui, per la ferrovia che dalla seconda metà dell’Ottocento divenne un’impellente necessità per l’imponente sviluppo industriale intrese, e per i progetti sognati e quelli perseguiti, tra cui quello del raccordo tra la stazione finalmente conquistata di Fondotoce e la stazione di Locarno, via Pallanza-Intra-Cannobio, che avrebbe collocato il Verbano tra i due assi ferroviari internazionali del Sempione e del San Gottardo; vanificato dalla scelta pallanzese di privilegiare una più economica tramvia Fondotoce-Pallanza (divenuta solo in seguito Omegna-Intra)[11].
Malgrado questi precedenti e il clima non proprio fraterno, si era giunti, verso la fine dell’Ottocento, a ipotizzare la possibile fusione dei due maggiori centri e dei circostanti abitati minori. Un’ipotesi che apparve come un invito, presto raccolto, a rinfocolare e dare fiato a tutti i motivi e i sentimenti di avversione a simili idee: “è la morte di Intra assorbita dai Pallanzotti”, “è la fine indecorosa di Pallanza ingoiata dalla rapace rivale”[12]. Mentre in qualche salotto di anime belle si plaudeva, invece, alla prossima Como del Lago Maggiore, in altri ambiti si facevano i conti e si pesavano i concreti vantaggi di ciascuna parte alla possibile fusione. Di matrimonio d’amore era fuori luogo parlare, ma un bel matrimonio di interesse poteva certo giovare a tutti: provvedere unitariamente all’organizzazione dei servizi in un più vasto Comune era sicuramente vantaggioso, come pure poter far valere il peso dei numeri nei contesti più vasti[13], e ugualmente far interagire i talenti e i potenziali delle diverse culture cittadine. Così, piano piano (perché ci volle, comunque, quasi mezzo secolo), l’idea prese forza, pur scontando uno zoccolo duro di fiera e irriducibile contrarietà che ancora per decenni, fin oltre la metà del Novecento, si sarebbe fatta sentire.
Qui giunti, andava però sciolto un problema: che dimensioni doveva avere la nuova città? Quanti Comuni avrebbe dovuto unire? Era palese la necessità di associare con Intra e Pallanza anche Suna e Trobaso, per rilevanza e contiguità, ma non si poteva, altrettanto, escludere i piccoli Comuni circostanti della collina gravitanti sui centri maggiori[14]. Qualcuno si allargò fino a fantasticare di una Federazione Borromea estesa a Baveno e Stresa, che si rivelò, però, un passo ben più lungo della gamba.
Già…, e il nome? Come battezzare la nuova città? Quanto più l’ipotesi di unione andava facendosi strada, tanto più prese quota la lotteria dei nomi. In prima fila quella irridente dei contrari e degli scettici: Intrapalla, Pallintra, Sanbernardinopoli (Intrallanza fu forse subito accantonata per la losca assonanza) e i più seriosi Verbanopoli, Verbanella, Leponzia (ricordando che siamo nelle Prealpi Lepontine, terra degli antichi Leponzi) e addirittura Verbania-Cadorna o Cadorna tout court[15]! Ma un altro nome già circolava, fin dall’inizio del secolo. “L’avevan trovato quattro ‘giovani esteti peripatetici’ mentre passeggiavano da Pallanza verso Intra in un dorato pomeriggio di settembre del 1907, lungo la strada Nazionale che cinge la Castagnola e costeggia il lago (…) Uno di questi giovani, contemplando la visione che gli si apriva dinnanzi, usciva in questa lirica esclamazione: «guardate, amici cari, la nostra cara Verbania»” [16].
Sarà per via della lirica, sarà che quel nome piacque, sarà che la concorrenza difettava, sarà che la vicenda andò per le lunghe fin ben dentro gli anni del regime fascista, notoriamente incline alla simpatia per quella desinenza[17], fatto sta che dal 4 aprile 1939, per Regio Decreto n. 702 del Re d’Italia e Imperatore di Etiopia, su proposta del Duce, Primo Ministro, Segretario di Stato, ecc., Verbania fu.
[1] Il torrente San Bernardino scorreva e scorre lontano dal nucleo urbano, a far da confine con Intra, a quasi un paio di chilometri in linea d’aria; le aree prospicenti la sponda destra, quella pallanzese, già da secoli utilizzate da imprese intresi.
[2] Si può vedere in proposito R. Negroni, Il Verbano nella rivoluzione industriale, Ed. Tararà, Verbania, 2024.
[3] Nel corso di un secolo, Intra passa dai 3.020 residenti del 1807 agli 8.000 del 1910, Pallanza dai 1.391 del 1806 ai 5.835 del 1906.
[4] Il Verbano occidentale fece parte del Ducato di Milano (Visconti prima, poi Sforza); dopo la prima metà del Cinquecento fu alternanza sforzesca/francese, seguì un secolo e mezzo di dominazione spagnola; dal 1714 passò agli Asburgo d’Austria, che, nel 1748, lo cedettero al Regno Sabaudo per ritrovarsi, infine, nel Regno d’Italia con l’Unità nel 1861.
[5] Si veda nella mappa (Mappa del Catasto Teresiano del 1722) la foce del San Bernardino, in quel tempo biforcuta, e l’indicazione del confine con Pallanza spostato, in corrispondenza dell’abitato intrese, nell’entroterra forse a testimoniare un fenomeno come quello descritto nella nota successiva.
[6] Nel suo volume “Verbania. Città nuova dalla storia antica” (privo di altre indicazioni, ma pubblicato verso la fine degli anni Ottanta del secolo scorso), Mario Bertolo riferisce a p. 92, ad esempio, fatti del 1473: «Un bel giorno, il S. Bernardino, abbandonando il letto antico e piegando verso mattina, si aperse un nuovo alveo entro il territorio intrese, tagliandone fuori magli, rogge, pascoli, gabbi ed orti, una parte considerevole, la quale venne così a trovarsi di là del fiume, separata dal corpo restante, ed in contatto immediato con il territorio pallanzese (…) I Pallanzesi consideravano l’aumento in estensione del gabbio come un dono del torrente (…) gli Intresi erano maldisposti a veder asportare una parte di riva e a considerarla preda proprio dei dirimpettai ed infidi rivali. Di qui l’origine di tante cause giudiziarie davanti alle varie magistrature (…) Una decisione del Commissario novarese favorevole agli Intresi, esasperò ancor di più gli animi dei cugini d’oltre fiume (…) Le cronache si infittirono così di operazioni punitive ed i verbali dei magistrati di nuove accuse, querele, denunce (…) Ogni occasione era buona per venire alle mani o, peggio, alle armi».
[7] Claudio Mariani, Verbania: briciole di storia, Lions Club Verbania, 1989, p. 6. È un fascicoletto che raccoglie una gustosa conferenza del famoso storico intrese e canonico di San Vittore.
[8] “Una vice prefettura, un tribunale di prima, l’archivio notarile, il conservatore del registro e delle ipoteche, l’intendenza di finanza, la dogana, la dispensa generale del sale, il podestà delle leve, una stazione di gendarmeria, la camera di commercio”. Bertolo, cit., pp.98-99.
[9] Pallanza fu, dalla metà del Settecento, capoluogo della Provincia comprendente l’intero alto novarese, esclusa l’alta Val d’Ossola, e divenne sede di prefettura; dal 1752 il Podestà ricoprì l’incarico di Vice Intendente dell’Alto Novarese. Dopo la parentesi napoleonica, che favorì Intra, la Restaurazione confermò la provincia di Pallanza e la sede del tribunale. Dopo l’Unità, il Verbano fu incorporato nella provincia di Novara, di cui Pallanza fu capoluogo di Circondario.
[10] Si veda in proposito Agostino Viani, Pallanza antica e Pallanza nuova, Atesa Editrice, Pallanza, 1891, Cap. XVII, per le citazioni p. 162 e p.167.
[11] Si vedano in proposito: Bertolo, cit., pp 125-126 e Negroni, cit., pp. 128-131.
[12] Citate in Mariani, cit., p. 10.
[13] Quando fu istituito il Comune di Verbania, la popolazione sfiorava i 23.000 abitanti.
[14] In funzione preparatoria, si realizzarono nel 1927 le unioni della Grande Intra e della Grande Pallanza che riunivano in due soli Comuni rispettivamente: Intra con Arizzano Inferiore, Trobaso, Zoverallo (ciascuno con le proprie frazioni) e Pallanza con Suna e Cavandone (Fondotoce già era frazione di Pallanza).
[15] “Che rischio!”, chiosava il canonico Mariani.
[16] Testo citato con dovizia di particolari in Mariani, cit., p. 4 e in Bertolo, cit., p.17.
[17] Imperia, Littoria, Pontinia, Aprilia, Pomezia, Guidonia, Acilia, Aquilinia, Albinia, Fertilia, Carbonia, Segezia, Lamezia, Mussolinia di Sardegna, per dire quel che viene in mente.
Diario di Bordo è la Newsletter periodica di Alternativa A… in cui è possibile approfondire e analizzare le tematiche relative all’associazionismo provinciale, le ultime notizie e le anteprime.
© Alternativa A • Casa Don Gianni | Via dell’Artigianato, 13 | 28845 | P.Iva 00984480038 | alternativa-a@legalmail.it | Domodossola (VB) | Privacy Policy | Cookie Policy